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Fiducia e professioni, i politici sono i meno affidabili  

Dal 2018 il sondaggio Ipsos Global Trustworthiness Index rileva il livello di fiducia riposto dalle persone di tutto il mondo nelle diverse categorie professionali. E dalla nuova rilevazione, che ha coinvolto 28 Paesi, in media, a livello internazionale, risulta che il 64% dei cittadini valuta medici e dottori come le figure professionali maggiormente affidabili, seguiti dagli scienziati, con il 61%, e gli insegnanti, con il 55%. Le ultime posizioni della classifica sono occupate dai politici, con il 10%, dai ministri del Governo, con il 14%, e dai dirigenti pubblicitari, con il 15%. Di fatto, a livello internazionale, sono queste tre professioni a distinguersi per essere considerate meno affidabili: dirigenti pubblicitari, ministri del Governo e politici.

In Italia, solo il 9% dei cittadini ritiene i politici affidabili

La rilevazione di quest’anno ha fornito anche un confronto tra il mondo pre-pandemia e quello di oggi. Infatti, tra il 2019 e il 2021 la percentuale di coloro che vedono i politici come inaffidabili è diminuita di 4 punti (dal 66% al 62%), mentre il livello di sfiducia nei ministri del Governo è diminuito di 5 punti (dal 58% al 53%), e se nel 2019 quasi la metà degli intervistati a livello internazionale considerava inaffidabili i dirigenti pubblicitari (45%), ora la quota è pari al 39%. Soltanto il 15% degli intervistati ripone fiducia nei dirigenti pubblicitari, il 14% nei ministri del Governo e il 10% nei politici. In Italia, il 9% dei cittadini ritiene i politici affidabili e il 15% ritiene affidabili ministri del Governo e dirigenti pubblicitari.

La pandemia fa salire la fiducia in medici e dottori

Sebbene negli ultimi anni le posizioni di molte professioni siano rimaste invariate, la pandemia da Covid-19 ha avuto un impatto notevole sulla posizione occupata da medici e dottori. Infatti, la fiducia in questa categoria professionale è aumentata di 7 punti percentuali dal 2019. La Gran Bretagna è il Paese che affida il punteggio più alto di fiducia nei medici, con il 72%, seguono i Paesi Bassi, con il 71%, e il Canada con il 70%. La percentuale dell’Italia si avvicina molto alla media internazionale: il 65% ripone la propria fiducia nella categoria dei medici.

La categoria professionale degli scienziati occupa il primo posto della classifica

Gli scienziati sono la categoria professionale che ottiene in media la fiducia del 61% degli intervistati, e la loro posizione è rimasta invariata in molti mercati negli ultimi due anni. In Italia, la categoria professionale degli scienziati occupa il primo posto della classifica: il 68% dei cittadini la ritiene affidabile, anche in misura maggiore rispetto a medici e dottori. Per la terza rilevazione consecutiva, gli insegnanti continuano a rimanere sul podio occupando il terzo posto, con una media del 55% a livello internazionale che li definisce affidabili. Anche in questo caso il livello di fiducia riposto nella categoria professionale degli insegnati ha subito piccole variazioni negli ultimi anni. Tra i maggiori aumenti registrati, Italia e Sudafrica (+6), mentre il livello di fiducia è diminuito negli Stati Uniti (-6) e in Argentina (-5).

Boschi italiani aumentano superficie e biomassa: in 10 anni più 587mila ettari

In 10 anni i boschi italiani hanno aumentato la loro superficie e la loro biomassa, e con queste anche la capacità di assorbire anidride carbonica. Sono aumentati infatti di quasi 587 mila ettari, pari a 290 milioni di tonnellate di CO2 sottratte all’atmosfera.  È quanto risulta dall’ultimo Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi forestali di Carbonio, la cui attività di monitoraggio degli ecosistemi forestali si inserisce nella realizzazione degli obiettivi strategici individuati dall’Unione Europea nell’ambito del Green Deal, che prevede il raggiungimento della neutralità delle emissioni inquinanti entro l’anno 2050.

La biomassa cresce del 18,4% pari a 165,4 metri cubi a ettaro

Dalla lettura dei dati si evidenzia un aumento della superficie forestale precisamente di circa 586.925 ettari, per un valore complessivo di 11.054.458 ettari di foresta, pari al 36,7 % del territorio nazionale. La consistenza dei boschi italiani, espressa come metri cubi di biomassa è aumentata del 18,4%, e i valori a ettaro in dieci anni sono passati da 144,9 metri cubi a 165,4. Lo stock di carbonio nella biomassa epigea e nel legno morto è poi passato dai 490 milioni di tonnellate della rilevazione del 2005 a 569 milioni di tonnellate di Carbonio organico, equivalente a un valore di CO2 che passa da 1.798 milioni di tonnellate a 2.088 milioni di tonnellate. In pratica, un incremento di 290 milioni di tonnellate di CO2 stoccata e quindi sottratta all’atmosfera.

Il ruolo essenziale delle foreste nel garantire gli equilibri ambientali globali

L’anidride carbonica è il gas serra maggiormente responsabile dell’innalzamento globale delle temperature. Le foreste invece svolgono un ruolo essenziale nel garantire gli equilibri naturali e ambientali globali, e contemporaneamente, nel contribuire al soddisfacimento dei bisogni del genere umano Affinché le foreste “contino” nelle scelte e nelle strategie politiche ed economiche del Paese, bisogna prima di tutto “contare” le foreste. La sottrazione dall’atmosfera e l’immagazzinamento dei gas a effetto serra, in particolare del diossido di carbonio o anidride carbonica, è una delle funzioni più importanti riconosciute alle foreste, che in questo modo contribuiscono a mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici e a regolare il clima.

Un ponte insostituibile tra il mondo inorganico e quello degli esseri viventi

Le foreste, riporta Askanews, come tutto il regno vegetale rappresentano un ponte insostituibile tra il mondo inorganico e quello degli esseri viventi, e una formidabile macchina biologica che cattura carbonio dall’atmosfera, lo immagazzina nelle sue fibre e lo tiene bloccato per tempi anche molto lunghi. Un metro cubo di legno secco contiene infatti circa 260 kg di carbonio, pari a circa la metà del suo peso.

Economia circolare: l’Italia è prima, ma non per stili di vita e consumi

Se l’Italia eccelle nell’economia circolare arranca sul fronte di comportamenti e stili di vita ‘green’, ed è in deciso rallentamento in settori-chiave della transizione ecologica, come ad esempio la produzione e il consumo di energie rinnovabili.  Da quanto emerge dal Rapporto di Circonomia, il Festival nazionale dell’economia circolare di Alba, se nel 2004 l’Italia contava il 6,3% di energia pulita sui consumi finali, e il 17,1% nel 2014, raggiungendo il target europeo del 17% con largo anticipo, nel 2019 si è fermata al 18%. Nella classifica dei Paesi europei più attivi nell’economia circolare l’Italia però è prima, seguita da Olanda, Austria e Danimarca. Le buone prestazioni sul fronte dell’economia circolare nascono da vari fattori, innanzitutto da condizioni oggettive e tradizionali. La nostra ‘geografia’, infatti, caratterizzata in prevalenza da un clima mite, favorisce bassi consumi di energia, e la strutturale carenza di materie prime, ha ‘abituato’ l’economia italiana a ottimizzare l’uso di energia e risorse naturali.

L’andamento della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili 

Per quanto riguarda le rinnovabili elettriche nel 2010 la produzione elettrica da nuove fonti rinnovabili, escludendo l’idroelettrico, era pari all’8%, valore inferiore alla media europea, e se nel 2015, con un balzo trainato dal fotovoltaico, era arrivata al 23%, si è fermata alla stessa percentuale fino al 2019. Inoltre, le prestazioni ambientali dell’Italia contraddicono il persistente declino del Paese sotto il profilo economico e sociale. L’Italia arretra, talora in assoluto, più spesso in termini relativi rispetto agli altri Paesi, sotto il profilo del reddito, delle condizioni sociali, dei tassi occupazionali, dei divari di genere e generazionali.

Comportamenti poco sostenibili, e consumi poco ‘green’

La terza ‘ombra’ riguarda i comportamenti, gli stili di vita e di consumo. Nel confronto con altri Paesi europei l’Italia, che nell’indice di circolarità primeggia, mostra un’assai maggiore lentezza nell’aprirsi a modelli di consumo e stili di vita ‘circolari’. Nelle nostre case consumiamo più energia della media dei cittadini europei: peggio di noi fanno solo Belgio e Lussemburgo. E la penetrazione del solare termico nei consumi domestici è un quarto di quello della Spagna e meno di metà di quello della Germania.

Spesa alimentare bio e mobilità alternativa ancora poco diffusi

Sebbene siamo uno dei principali produttori europei di prodotti alimentari biologici, per consumi bio sia rispetto alla spesa alimentare sia per abitante l’Italia è dietro buona parte dei Paesi del Nord Europa. Altro capitolo nel quale fatichiamo è quello della mobilità alternativa: da una parte siamo il Paese europeo con il più alto tasso di motorizzazione privata dall’altra pur essendo i primi produttori europei di biciclette i ritmi di vendita di bici ed e-bike sono ampiamente al di sotto della media europea. Nell’ambito dei comportamenti ‘green’, vanno poi sottolineate le profonde differenze tra le regioni. Dalla diffusione delle energie rinnovabili all’utilizzo degli eco-bonus, dal car-sharing alla raccolta differenziata, il gap tra Nord e Sud è vistoso, e non pare in via di riduzione.

Vino, export da record: verso quota 7 miliardi nel 2021

Il vino italiano è sempre più bevuto all’estero. Nel primo semestre 2021 l’export italiano di vino supera infatti per la prima volta la quota di 3 miliardi di euro, arrivando a 3,3 miliardi: un valore che proietta le aspettative per questo primo anno post-pandemico oltre la soglia dei 7 miliardi. Si tratta di un record assoluto nella storia dell’industria vinicola italiana, confermato dalle elaborazioni dell’Osservatorio del vino di Unione italiana Vini (Uiv) sui dati Istat del primo semestre di quest’anno. Secondo lo studio, il rimbalzo delle spedizioni tricolori nel mondo, favorito dalla ripresa dei consumi nei principali Paesi clienti, è evidente non solo sul 2020, che segna un +16% in valore e un +6% anche dei volumi, arrivando sopra quota 10 milioni di ettolitri, ma anche sulla media del triennio 2015/2018 pre-Covid. 

Gli spumanti ‘girano’ a regimi più che raddoppiati

In particolare, nel primo semestre del 2021, il segmento dei vini confezionati eguaglia le performance del 2019 (+6%), mentre gli spumanti ‘girano’ a regimi più che raddoppiati, con ritmi straordinari negli Usa e in Germania. Negli Stati Uniti, infatti, gli spumanti italiani segnano +75% sulla media 2015/18, contro +45% della Francia. Sui vini confezionati, invece, sempre in rapporto alla media del periodo pre-pandemia, negli Usa il 2021 segna +12% contro +2% del 2019, in Germania +18% contro +5%, e in Canada +19% contro +4%.

Assecondare la crescita, anche attraverso la promozione

Debolezze diffuse invece in UK, dove si riscontra un peggioramento rispetto ai ritmi già negativi del 2019 (-8% contro -4%), e Giappone, dove si scende in terreno leggermente negativo contro una crescita del 12% registrata prima dello scoppio della pandemia. Per il segretario generale di Uiv, Paolo Castelletti, “Ora è necessario assecondare questa crescita, anche attraverso l’ausilio della promozione e del nuovo plafond di 25 milioni di euro ai nastri di partenza entro l’autunno”.

In aumento tutti i principali segmenti ad alto valore aggiunto

Quanto ai dati di confronto annuo, grazie a un balzo poderoso registrato soprattutto tra aprile e giugno, tutti i principali segmenti ad alto valore aggiunto segnano crescite. I vini spumanti salgono a +26% (780 milioni di euro), i vini frizzanti superano la soglia dei 200 milioni (+3%), e i vini fermi confezionati crescono del +16%, con il top dei rossi a denominazione che segnano +23% (860 milioni di euro). In regresso risultano solo i bag-in-box (-7%), vini che avevano fortemente beneficiato dalle restrizioni imposte dai lockdown nel 2020, e gli ‘sfusi’, che soffrono della impietosa concorrenza spagnola sulle principali destinazioni.

Gli effetti collaterali della pandemia su giovani e bambini

Gli effetti collaterali della pandemia, in termini di benessere psicofisico e salute mentale, colpiscono in misura maggiore i bambini e i giovani. Tanto che quasi quattro persone su dieci in 29 Paesi del mondo pensano che un effetto collaterale della pandemia sarà proprio il peggioramento della salute mentale e del benessere di giovani e bambini. Lo rileva un sondaggio Ipsos, secondo il quale la perdita di concentrazione e attenzione è ritenuto uno dei problemi maggiori dal 41% degli intervistati, e in Italia il 39% dei cittadini ritiene che la principale causa di disturbo per i bambini fino agli undici anni al loro ritorno a scuola è data dalla difficoltà di reintegrarsi tra compagni, docenti e staff.  Inoltre, il 36% ritiene che il disturbo di concentrazione e attenzione sarà rilevante, e se il 28% ritiene che difficilmente i ragazzi torneranno a un’attività fisica regolare, il 26% crede che avranno problemi nel mantenere le buone maniere.

Perdita di concentrazione e difficoltà a reintegrarsi nel rientro a scuola 

Anche per quanto riguarda i ragazzi con un’età compresa dai 12 ai 15 anni, il 40% degli intervistati a livello internazionale ritiene che la perdita di concentrazione e attenzione sia uno dei problemi maggiori, e per la maggioranza dei cittadini italiani (36%) la principale causa è data dalla difficoltà di reintegrarsi tra compagni, docenti e staff. Per quanto invece riguarda i ragazzi con un’età compresa dai 16 ai 18 anni, il 40% degli intervistati a livello internazionale ritiene che la perdita di concentrazione e attenzione sia uno dei problemi maggiori. Invece per il 22% degli italiani i ragazzi dovranno affrontare le preoccupazioni legate al Covid-19 e l’11% non riconosce quelli potrebbero essere gli effetti indesiderati.

Scuole aperte o chiuse?

La maggioranza degli italiani (35%) dichiara che al rientro a scuola i ragazzi avranno disturbi riguardanti la salute mentale e il benessere fisico. Inoltre, in Italia, il 27% crede che i bambini non siano in grado di recuperare l’educazione mancata, il 28% pensa che ci saranno tassi di disoccupazione più elevati e maggiori guadagni persi, il 32% che ci sarà meno esercizio fisico e un peggioramento psichico, il 27% afferma che ci saranno problemi di socializzazione. Per quanto riguarda il tema delle scuole aperte o chiuse, ovvero, se per prevenire la pandemia da Covid-19 si ritiene opportuno chiudere gli edifici scolastici, il 42% degli italiani la considera un’opzione accettabile. Una percentuale ben al di sotto della media internazionale del 62%, mentre il 28% degli italiani non lo ritiene accettabile contro il 18% a livello internazionale. 

Migliorare l’accesso all’istruzione con il sostegno finanziario

Per migliorare l’accesso all’istruzione dopo la pandemia il sostegno finanziario per le spese scolastiche è fondamentale per il 48% degli italiani e il 37% degli intervistati a livello internazionale. Ma in cosa bisognerebbe investire secondo gli italiani per migliorare l’accesso all’istruzione? Garantire gli investimenti alla scuola e allo staff (35%), accesso a internet più veloce (32%), investire nell’istruzione dei docenti (28%), estendere gli orari scolastici per le settimane in cui hanno chiuso (25%), investire in programmazione digitale e nell’acquisto di pc, tablet e portatili (23%), e il 2% afferma non sia opportuno investire in nessuna delle precedenti.

Quattro giorni di lavoro a settimana? Un’opzione da valutare

La settimana lavorativa di soli quattro giorni potrebbe presto diventare una realtà anche in Italia. In altri Paesi, dove è già stata sperimentata, si è rivelata un successo. Ad esempio in Islanda è stato condotto un test su 2.500 lavoratori, circa l’1% della popolazione attiva, riducendo sensibilmente il numero di ore passate in ufficio e verificandone i risultati. E non si tratta di un esperimento temporaneo: è durato infatti dal 2015 al 2019, in cui le “cavie” hanno visto abbassarsi il monte ore settimanali da 40 e 35-36, fino ad arrivare a una settimana composta di soli 4 giorni lavorativi. I dipendenti erano impiegati in diversi settori del pubblico, dagli ospedali agli uffici amministrativi, dai servizi sociali alle scuole materne. Va però sottolineato che, a fronte di un calo delle ore di lavoro, lo stipendio è rimasto lo stesso: si è scoperto, che mantenendo intatto lo stipendio e riducendo il tempo destinato alla propria occupazione professionale, la produttività dei lavoratori non è solo rimasta identica, ma in molti casi è addirittura aumentata. 

Più salute, meno stress

Non solo: al pari della produttività, l’esperimento islandese ha rilevato che in questo modo migliorava anche la qualità di vita dei lavoratori. E il maggior benessere riguarda tutti i campi dell’esistenza: salute, stress percepito e work-life balance. Il test islandese non è però un caso isolato. Esistono infatti molti altri Paesi europei che stanno indagando questa possibilità, come Spagna, Finlandia e Germania che non escludono di prevedere la settimana corta.

Accadrà anche in Italia?

Anche nel nostro Paese ci sono esempi che si muovono in analoga direzione: è il caso della Raffin House Technology di Brunico, in Alto Adige, che ha testato la settimana lavorativa di 4 giorni anziché i canonici 5, con risultati molto soddisfacenti sia per l’azienda sia per i dipendenti.  .Ma si tratta davvero di un futuro percorribile per il nostro Paese? “Incontrando ogni giorno molti dirigenti, manager e professionisti qualificati ho conosciuto le più differenti modalità di organizzazione della settimana lavorativa, a livello nazionale e internazionale e non ci sono dubbi nell’affermare che con l’introduzione dello smart working le imprese possano effettivamente prendere in seria considerazione l’introduzione della settimana lavorativa corta, conducendo dapprima dei test su un numero selezionato di dipendenti” ha detto Carola Adami, co-fondatrice della società italiana di head hunting Adami & Associati. “E’ notizia di pochi giorni fa che lo stesso Giappone desidera introdurre la settimana corta, e non a caso” spiega Adami. “Tutti conosciamo il Giappone come un Paese in cui l’attaccamento dei dipendenti e all’azienda è fortissimo, tanto da toccare talvolta lo stacanovismo; è però anche vero che questo Paese sta affrontando problemi come la produttività bassa, il calo demografico e il calo dei consumi. Introducendo la settimana corta, e quindi aumentando il tempo libero da dedicare alla famiglia o alla formazione, si potrebbe raggiungere il doppio obiettivo di aumentare la produttività e di rilanciare i consumi” continua Adami. Potrebbe essere questa una strada percorribile anche da noi, considerando che “In Italia si affrontano problemi simili a quelli giapponesi: basta guardare ai dati relativi all’andamento demografico, alla produttività e alle ore lavorate”. Non bisogna dimenticare infatti che l’Italia è il secondo Paese in Europa per quantità di ore settimanali lavorate, che sono mediamente 7 in più rispetto a quelle della Germania.

Flessibilità è la parola chiave per 8 professionisti su 10

DoveVivo Lab è l’osservatorio che indaga le tendenze e lo stile di vita della community internazionale di studenti e giovani lavoratori di DoveVivo, la coliving company europea presente in 14 città. Nel suo secondo sondaggio sono stati intervistati i lavoratori per capire come hanno affrontato lo smart working durante la pandemia e indagarne le aspettative per il futuro. E secondo più della metà dei professionisti intervistati si tornerà a lavorare stabilmente in ufficio. Il 67% dichiara infatti che con la pandemia alle spalle si ricomincerà a lavorare in presenza. Anche se la parola d’ordine del futuro per gli intervistati è flessibilità.

L’80% vorrebbe andare in ufficio 1 o 2 volte a settimana

Per il 18% degli intervistati lo smart working sparirà completamente, lasciando il posto a una settimana in ufficio 5 giorni su 5. Il 33% dichiara invece che immagina un futuro in cui lo smart working rimarrà un’abitudine stabile, con almeno 3 giorni a settimana in cui sarà possibile lavorare da casa. Quanto alle preferenze, però, emerge una situazione molto diversa: la parola chiave più amata dai professionisti è flessibilità. Il 80% di loro dichiara infatti che vorrebbe andare in ufficio 1 o 2 volte a settimana, oppure vorrebbe poter scegliere se fare smart working giorno per giorno. Il restante 20% invece vorrebbe tornare in ufficio tutti i giorni.

Positiva l’esperienza con le riunioni da casa

Generalmente positiva, comunque, l’esperienza con le riunioni da casa per 7 lavoratori su 10. Il 50% dichiara di aver capito che lo smart working è efficace come il lavoro in presenza, mentre il 31% lamenta una comunicazione poco empatica attraverso lo schermo del pc e la difficoltà nel riuscire a trovare il tempo per fissare le riunioni. La possibilità di gestire il tempo in maniera differente è l’aspetto più apprezzato dello smart working: il 51% dei lavoratori ha dichiarato, infatti, di essere riuscito a trasformare il tragitto casa-ufficio in tempo dedicato alle passioni. La comodità della casa, invece, ha permesso al 24% di lavorare meglio. Il 19% poi ha apprezzato la possibilità di aver potuto condividere più tempo con la famiglia, o la presenza di coinquilini o partner (6%).

Tra difficoltà e più tempo a disposizione

Ma lo smart working ha generato anche difficoltà. Secondo il 32% si è sentita la mancanza delle occasioni di viaggiare, conoscere nuovi colleghi e lanciare progetti. Aspetto altrettanto negativo (31%) la difficoltà di separare la giornata lavorativa dalla vita privata, mentre secondo il 19% l’aspetto peggiore è stato l’isolamento, e il 18% non ha gradito la scomodità della ‘postazione lavorativa domestica’.
Nonostante la possibilità di avere più tempo a disposizione il 21% ha dichiarato di aver lavorato ancora più del solito. Il 58%, però, ha affermato di aver dedicato il tempo guadagnato a interessi personali e affetti, mentre il 21% si è reso conto dell’importanza dell’aggiornamento professionale e ha colto l’occasione per partecipare a corsi di formazione.

Acquisti alimentari domestici in aumento nel primo trimestre del 2021

In attesa della riapertura a pieno ritmo dei ristoranti, gli italiani si sono organizzati a casa, facendo volare gli acquisti di prodotti gourmet come il pesce (+21%) e le bollicine (+55%), tra i top sellers nei primi tre mesi del 2021. Nel primo trimestre del 2021 procede quindi, anche se a ritmo meno sostenuto, l’aumento degli acquisti alimentari domestici. Secondo il panel Ismea-Nielsen, dopo aver chiuso il 2020 con un +7,4% sui primi tre mesi dello stesso anno, la spesa di cibi e bevande registra un ulteriore spunto di crescita di quasi il 3% sul 2019, attestandosi comunque di ben il 12% sopra un’annata “normale” come il 2019.

Il ricorso allo home-working sposta in casa parte dei consumi extradomestici

L’aumento registrato nei primi tre mesi del 2021 risente però ancora del perdurare delle restrizioni alla socialità e delle limitazioni del canale Horeca. Un trend destinato ad affievolirsi con le progressive riaperture, ma che secondo l’Ismea, non si esaurirà del tutto, anche per effetto del diffuso ricorso allo home-working, che ha spostato tra le mura di casa parte dei consumi dell’extradomestico. In ogni caso, il primo scorcio dell’anno si distingue per alcune tendenze opposte rispetto al quadro di inizio pandemia. Per la prima volta, infatti, a trainare la crescita sono i prodotti freschi sfusi rispetto ai prodotti confezionati (+3,7% contro il +2,5%), ma soprattutto, le bevande (+13%) rispetto ai generi alimentari (+1,7%).

Nuovo slancio per i prodotti che fungono “da compensazione alle privazioni”

Il contesto di maggior fiducia verso un’uscita sempre più vicina dalle restrizioni imposte dalla pandemia conferisce nuovo slancio ai prodotti che fungono “da compensazione alle privazioni”. Volano prodotti gourmet come il pesce e gli alcolici: vini, spumanti, birra e in generale tutta la categoria degli aperitivi. Tra i top sellers troviamo infatti vini e spumanti (+14,5%), trainati soprattutto dalle bollicine (+55%) per riflesso alla rinnovata voglia di festeggiare, e i prodotti ittici freschi (+21%).

Nuovo incremento per i “proteici di origine animale”

Dopo la ripartenza nel 2020, anche il comparto dei proteici di origine animale, come le carni (+9,8%), i salumi (+8,3%), e le uova (+14,5%), mettono a segno un nuovo incremento nel 2021, seppur con minore slancio (+1,3% le carni e +4,2% i salumi), e con alcuni segmenti in ripiegamento. Quello delle uova, ad esempio, che nel 2020 era stato il segmento più dinamico, apre il 2021 con un’attesa flessione (-4,3%), mantenendo comunque un divario positivo sui livelli di spesa del periodo pre-Covid.

In Cina la vita è più smart grazie all’AI. In mostra le novità più “intelligenti”

Grazie all’Intelligenza artificiale in Cina la vita è già più smart, e il quinto World Intelligence Congress, l’evento sull’AI di Tianjin, ha mostrato le ultime novità in fatto di tecnologie “intelligenti”. L’evento, svolto all’insegna del tema New Era of Intelligence: Empowering New Development, Fostering a New Pattern, ha attirato oltre 240 aziende e istituzioni, che hanno esposto le loro applicazioni più innovative. Secondo le statistiche rilasciate dalla China Academy of Information and Communications Technology, il settore globale dell’AI ha raggiunto i 156,5 miliardi di dollari nel 2020, con una crescita annuale del 12%.
“Tianjin ha creato una forte atmosfera di innovazione tecnologica da quando si è tenuto il primo World Intelligence Congress nel 2017 – osserva Li Xiaohong, presidente della Chinese Academy of Engineering -. Il Congresso diventerà una piattaforma di alto livello per la cooperazione e lo scambio scientifico e tecnologico internazionale”.

Espandere l’applicazione dell’AI per favorire il progresso della società digitale

“L’evoluzione del settore dell’Intelligenza artificiale dovrebbe soddisfare le esigenze dello sviluppo economico e sociale – dichiara Chen Zhaoxiong, presidente della China Electronics Technology Group Corporation -. L’industria dovrebbe espandere l’applicazione dell’AI in più aree e favorire il progresso della società digitale”. 
Intanto, durante il World Intelligence Congress, gli spettatori hanno potuto assistere a una performance musicale eseguita da una band composta da robot e persone, mentre allo stand espositivo di Hisense, marchio cinese di elettrodomestici, i visitatori hanno atteso in fila per poter osservare più da vicino un frigorifero intelligente in grado di consigliare i menu nonché di impartire lezioni di cucina attraverso video.

Dal riconoscimento per allenarsi ai veicoli senza equipaggio

Insomma, l’applicazione delle tecnologie intelligenti sta trasformando la vita quotidiana, tanto che in una comunità residenziale della Sino-Singapore Tianjin Eco-City, i percorsi per il jogging e le attrezzature per l’allenamento sono dotati di tecnologie di riconoscimento facciale, in grado di rilevare i dati dei residenti e registrarne i tempi e il consumo di calorie.
I residenti della comunità hanno anche installato in casa altoparlanti intelligenti con cui possono controllare i costi dell’acqua o del riscaldamento, nonché contattare i dottori della comunità per consultazioni mediche online.
Lo stand di Cainiao Network ha invece esposto veicoli senza equipaggio e robot per la consegna di pacchi.

La tecnologia rende più pratica e funzionale la vita quotidiana

Con la costante evoluzione dei consumi, sono emersi anche nuovi metodi di pagamento, come la carta rossa, delle stesse dimensioni di una carta di debito, che brillava allo stand della Industrial and Commercial Bank of China.
“L’intelligenza artificiale ha cambiato le nostre vite – commenta Sun Ning, professore presso il College of Artificial Intelligence della Nankai University . Queste tecnologie non vengono applicate solo nel mercato di fascia alta, ma rendono più pratica e funzionale anche la vita quotidiana”. Tanto che la tecnologia ad esempio ora entra anche in biblioteca, dove è sufficiente riferire a un robot il nome del libro che si desidera consultare per essere guidati fino a esso. Dotati di un sistema di navigazione basato sul geomagnetismo e sulla tecnologia 5G, i robot hanno una precisione di posizionamento di uno o due metri.

Il cambiamento climatico minaccia l’umanità, ma non è troppo tardi per arrestarlo

Quanto sanno gli abitanti del mondo di cambiamento climatico? E come pensano sia possibile prendersi maggiormente cura dell’ambiente? Ha fatto luce su questi aspetti l’Annual WIN World Survey (WWS – 2020) da poco pubblicata da WIN International, l’associazione leader mondiale nelle ricerche di mercato e nei sondaggi. L’indagine, realizzata in 34 Paesi del mondo su un campione di quasi 30 mila persone, analizza punti di vista e opinioni relativi alla percezione del cambiamento climatico nel 2020 e all’importanza dello sviluppo sostenibile a livello mondiale. In base ai dati raccolti, l’85% della popolazione mondiale considera il cambiamento climatico una minaccia per l’umanità, e il 54% ritiene che non sia ancora troppo tardi per combatterlo, con il supporto e l’esempio di governi e aziende, ma senza dimenticare la responsabilità dei singoli individui. Ma come si colloca l’Italia nel quadro internazionale? 

Gli italiani meno ottimisti 

In linea con la media mondiale, l’89% degli Italiani ritiene che il cambiamento climatico sia una grave minaccia per l’umanità, un dato leggermente più alto rispetto alla media europea che si attesta all’84%. Gli italiani sembrano anche un po’ meno ottimisti del resto dei cittadini europei: il 52% dei nostri connazionali pensa che ci sia ancora tempo per arginare il cambiamento climatico, contro un 57% dei cittadini europei.

Responsabilità pubblica e impegno privato

Il 67% della popolazione mondiale ritiene che i veri sforzi in termini di sostenibilità debbano essere fatti dalle aziende e dai governi piuttosto che dai soli individui. il 66% della popolazione mondiale afferma che vorrebbe vivere in modo più sostenibile, anche se spesso non apporta le necessarie modifiche ai propri comportamenti. Ben più alta rispetto alla media mondiale ed europea è invece la quota di Italiani che ritiene che le proprie azioni quotidiane possano realmente aiutare a proteggere e preservare l’ambiente e ad arginare il cambiamento climatico: sono 88% gli italiani che lo pensano. Vilma Scarpino, Presidente di WIN International Association e CEO BVA Doxa, ha dichiarato: “I cittadini di tutto il mondo sono consapevoli della loro responsabilità quando si tratta di applicare comportamenti sostenibili nella loro vita quotidiana ma, allo stesso tempo, si aspettano che anche le imprese e i governi facciano la loro parte. Considerando che molti vogliono vivere in modo più sostenibile, gli sforzi dei governi e delle aziende verso la sostenibilità potrebbero anche essere un fattore trainante per il cambiamento comportamentale degli individui”.