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Basta acquisti compulsivi: arriva la sfida che fa bene al budget e all’ambiente

Si chiama #nospendchallenge la sfida virale che invita tutti a spendere e a consumare meno. Per i più motivati, l’obiettivo è riuscire a non spendere proprio nulla: e non si tratta di una necessità dovuta a scarse disponibilità economiche, ma di una vero e proprio stile di vita. Una tendenza che unisce quindi due nobili scopi: gestire consapevolmente il denaro in un momento difficile a livello globale e soprattutto ridurre l’impatto ambientale causato dai consumi eccessivi.

Una scelta radicale

Nel contesto attuale, sia nel mondo reale sia in quello virtuale, la #nospendchallenge spicca come una sfida tutt’altro che frivola. Prendersi questo impegno implica una decisione radicale: non acquistare nulla che non sia strettamente necessario per un periodo predeterminato, che può variare da una settimana a un anno. Tuttavia, alcune spese fondamentali, come il mutuo, le bollette, il cibo, i medicinali e gli acquisti obbligati, rimangono escluse dalla sfida.

Una pianificazione attenta

Affrontare la no spend challenge richiede una pianificazione attenta. Vanno infatti stabilite in anticipo le voci essenziali da otto ciò che può essere sacrificato. Ad esempio, gli esperti consigliano di dire no all’acquisto di libri se in casa ce ne sono già molti altri da leggere, riscoprendo invece l’utilità delle biblioteche. Allo stesso modo, dovrebbero essere evitati vestiti, pranzi fuori, cibi non salutari, cosmetici, device elettronici, media in streaming e molti altri acquisti superflui dovrebbero essere evitati.

Consapevolezza sull’impatto ambientale dietro i nostri acquisti

Il cuore della sfida risiede nella consapevolezza dell’impatto ambientale che gli acquisti hanno. La sovraproduzione, soprattutto nell’industria della moda, ha generato costi ecologici incontrollabili. La Generazione Z, attenta alle questioni ambientali, si sta impegnando attivamente in questa sfida come forma di protesta contro il consumismo senza freni e la produzione non sostenibile.

La pandemia ha amplificato il ricorso degli acquisti online, riferisce Adnkronos, con ulteriori conseguenze ambientali derivanti dagli imballaggi e dal trasporto. La “no-spend-challenge” mira a interrompere il circolo vizioso degli acquisti compulsivi, promuovendo l’economia circolare e la consapevolezza delle reali necessità.

Imparare a gestire le finanze

Inoltre, la sfida vuole anche insegnare ai più giovani a gestire in maniera migliore le finanze. I ragazzi della Generazione Z, così come le donne, sono considerati elementi vulnerabili nell’ambito dell’educazione finanziaria. La #nospendchallenge può rappresentare uno strumento per riflettere su ogni acquisto, promuovendo una gestione più consapevole delle proprie disponibilità economiche.

In conclusione, la no spend challenge dimostra che si può vivere con meno, contribuendo al benessere personale, all’ambiente e alla salute finanziaria. La sfida va oltre la mera restrizione economica, fungendo da catalizzatore per cambiamenti positivi nella vita quotidiana.

Google: nuova politica sulla condivisione dei dati in Europa

Una nuova politica in risposta all’Atto dei Mercati Digitali della UE (DMA) permette agli utenti di Google di optare per la non condivisione dei dati su tutti, alcuni o nessuno dei servizi offerti dal motore di ricerca. I servizi elencati includono YouTube, Search, i servizi pubblicitari, Google Play, Chrome, Google Shopping e Google Maps.

È questa la modifica alla policy annunciata dal gigante di Mountain View, un provvedimento che permetterà agli utenti in Europa di decidere con precisione quanto e con chi sono disposti a condividere i propri dati.

Previste regole aggiuntive sull’interoperabilità e sulla concorrenza

Tuttavia, la policy non è totale. Google continuerà infatti comunque a condividere i dati degli utenti quando sia necessario per completare un’operazione, come, ad esempio, quella di effettuare un acquisto su Google Shopping tramite Google Pay, al fine di ottemperare alla legge, prevenire frodi o proteggersi dagli abusi.

In realtà non si tratta della modifica più significativa che Google dovrà apportare per conformarsi al DMA, che entrerà in vigore il 6 marzo prossimo. La legge prevede anche regole aggiuntive sull’interoperabilità e sulla concorrenza. Ad esempio, Google dovrà smettere di trattare i propri servizi in maniera più favorevole rispetto ad altri servizi di terze parti nella classificazione di Search.

L’Europa non è l’unica a preoccuparsi

La UE non è l’unica ad avere sollevato preoccupazioni riguardo alle enormi quantità di dati degli utenti raccolte da Google.
Negli Stati Uniti, il Dipartimento di Giustizia ha citato in giudizio la società californiana in quello che è probabilmente il più grande processo antitrust nel paese dal caso contro Microsoft negli anni ‘90.

In uno dei suoi argomenti, il Dipartimento di Giustizia ha sostenuto che la grande quantità di dati degli utenti raccolti da Google nel corso degli anni ha portato a un meccanismo atto a garantire che l’azienda rimanga il motore di ricerca leader nel mondo.

Gli utenti dovranno scegliere tra privacy e comodità

Tuttavia, riferisce Adnkronos, le nuove modifiche introdotte da Google a causa del DMA comporteranno alcuni compromessi per gli utenti che vogliono proteggere i propri dati.
L’azienda ha fatto notare che se un utente decide di scollegare Search, YouTube e Chrome, ciò influenzerà le raccomandazioni personalizzate su YouTube. 

Se invece Search e Maps vengono scollegati, Google Maps non sarà più in grado di suggerire luoghi (come, ad esempio, ristoranti) in base alle attività precedenti.
Gli utenti di Google dovranno scegliere tra la loro privacy e la comodità di avere i servizi Google connessi tra loro. Ma, almeno in Europa, avranno la possibilità di essere più precisi nel definire dove tracciare la linea.

In arrivo dalla UE la prima legge al mondo per regolamentare l’AI

Si tratta di una normativa senza precedenti a livello globale, che intende garantire la sicurezza e il rispetto dei diritti fondamentali e dei valori europei da parte dei sistemi di Intelligenza artificiale immessi sul mercato.
Dopo una maratona di negoziati durata tre giorni il Consiglio UE e il Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo sulla proposta di norme armonizzate sull’Intelligenza artificiale. 

L’idea principale è regolamentare l’AI in base alla capacità di causare danni alla società: maggiore è il rischio, più severe sono le regole.
La stragrande maggioranza dei sistemi di AI rientra però nella categoria del rischio minimo, pertanto, beneficeranno di un ‘free-pass’.

I sistemi considerati ad alto rischio

Le sandbox normative faciliteranno l’innovazione responsabile e lo sviluppo di sistemi AI conformi. Quindi, i sistemi identificati ad alto rischio saranno tenuti a rispettare requisiti rigorosi.

Esempi di sistemi di AI ad alto rischio includono alcune infrastrutture critiche, come nei settori acqua/gas/elettricità, dispositivi medici, sistemi per determinare l’accesso alle istituzioni educative o per reclutare persone, alcuni sistemi utilizzati nei settori delle forze dell’ordine, controllo delle frontiere, amministrazione della giustizia e processi democratici.
Sono considerati ad alto rischio anche i sistemi di identificazione biometrica, categorizzazione e riconoscimento delle emozioni.

La blacklist dei sistemi a rischio inaccettabile

Il rischio inaccettabile riguarda i sistemi di AI considerati una chiara minaccia ai diritti fondamentali delle persone, e saranno vietati.
La blacklist include sistemi o applicazioni di AI che manipolano il comportamento umano per aggirare il libero arbitrio, sistemi che consentono il ‘punteggio sociale’ da parte di governi o aziende, e alcune applicazioni di polizia predittiva.

Alcuni utilizzi dei sistemi biometrici saranno vietati, ad esempio, il riconoscimento delle emozioni sul posto di lavoro, e alcuni sistemi per la categorizzazione delle persone, o il riconoscimento facciale in tempo reale in spazi accessibili al pubblico.

Sistemi a rischi specifici a contrassegno obbligatorio 

L’accordo della UE chiarisce gli obiettivi in cui tale uso è strettamente necessario ai fini dell’applicazione della legge, e per i quali le autorità dovrebbero essere eccezionalmente autorizzate a utilizzare tali sistemi.
L’accordo prevede ulteriori garanzie, limitando le eccezioni alle vittime di determinati reati, prevenzione di minacce reali, come ad esempio, attacchi terroristici, e la ricerca di persone sospettate di gravi crimini.

Vi è poi la categoria dei rischi specifici, quali le ormai famose chatbot.
Quando utilizzano le chatbot, riporta AGI, gli utenti dovrebbero essere consapevoli che stanno interagendo con una macchina. Deepfake e altri contenuti generati dall’AI dovranno essere etichettati come tali.
Inoltre, i fornitori dovranno progettare sistemi in modo che i contenuti audio/video/testo/immagini sintetici siano contrassegnati e rilevabili come generati o manipolati artificialmente.

Big Data: in Italia un mercato da 2,85 miliardi di euro

In Italia nel 2023 la spesa delle aziende in infrastrutture, software e servizi per la gestione e l’analisi dei dati cresce del +18%, raggiungendo il valore di 2,85 miliardi di euro. L’83% è imputabile a grandi imprese, il 17% a microimprese e Pmi.

La crescita è trainata dalla componente Cloud (27% del mercato), particolarmente marcata nel settore manifatturiero e nel comparto Telco e media. GDO/Retail, PA e Sanità registrano una crescita in linea con la media di mercato, mentre il settore bancario è primo per spesa in ambito gestione e analisi dati in relazione al budget ICT.
Sono alcuni risultati della ricerca dell’Osservatorio Big Data & Business Analytics della School of Management del Politecnico di Milano.

Migliora la maturità delle grandi aziende

Secondo il Data Strategy Index cresce la percentuale di grandi aziende italiane di livello avanzato (20% vs 15% nel 2022), ma un terzo (32%) è ancora immaturo o ai primi passi.
All’interno delle organizzazioni sono ormai diffuse figure professionali per la valorizzazione dei dati. Il 77% delle grandi aziende ha già un Data Analyst, il 49% un Data Scientist e il 59% un Data Engineer. Tuttavia, il 77% ha difficoltà a trovare le figure richieste.

Sul fronte delle Pmi, 4 su 10 non hanno alcuna figura dedicata, neanche parzialmente, all’analisi dei dati.
Il 57% si è dotata di un software di data Visualization & Reporting (+8% sul 2022), ma si tratta per lo più di un utilizzo sporadico, con investimenti molto contenuti. Il foglio elettronico rimane ancora estremamente diffuso.

Cresce la spesa per gli Analytics

“Nel 2023 cresce la spesa per gli Analytics, e il livello di maturità delle imprese italiane nella gestione dei dati – spiega Alessandro Piva, responsabile della ricerca dell’Osservatorio -. Tuttavia, il forte interesse non corrisponde sempre a un cambio di rotta decisivo: sono ancora una minoranza le organizzazioni con una Data Strategy di livello corporate. Serve un ulteriore salto per cogliere le opportunità offerte dalle nuove frontiere tecnologiche, tra tutte l’Intelligenza artificiale generativa. Le aziende più mature stanno già sperimentando nell’ambito gestione e analisi dei dati con la Generative AI, alla ricerca di nuove strade per estrarre insight di valore da dati non strutturati o migliorare il processo di gestione e analisi”.

Obiettivo: costruire una buona data experience

“Il grande interesse suscitato nel 2023 per la Generative AI ha contribuito ad accendere i riflettori sull’importanza di avere a disposizione dati di buona qualità, fondamenta per rendere affidabili, e dunque utilizzabili, i risultati degli algoritmi – aggiunge Carlo Vercellis, responsabile scientifico -. Mentre l’innovazione avanza, però, la situazione di incertezza economica e geopolitica rischia di far ritardare gli investimenti, non tecnologici, ma soprattutto organizzativi e culturali, per proseguire nel percorso di valorizzazione dei dati. L’obiettivo delle imprese deve essere quello di costruire una buona data experience, intesa come l’esperienza complessiva di un utente in ogni fase di relazione con i dati, capace di fare la differenza nell’impatto di soluzioni di Analytics”.

Mercato Cloud: si consolida nel panorama aziendale italiano

Il mercato Cloud italiano nel 2023 ha registrato una crescita significativa, raggiungendo un valore complessivo di 5,51 miliardi di euro, in aumento del 19% rispetto al 2022. Questo segnala un consolidamento della presenza del Cloud nel panorama aziendale italiano, nonostante alcune sfide legate alla situazione geopolitica, alla crisi energetica e all’inflazione crescente che potrebbero influenzare il settore.

Il comparto Public & Hybrid Cloud cresce del 24%

Tra le componenti del mercato Cloud, il Public & Hybrid Cloud, che comprende servizi forniti da provider esterni e l’interconnessione tra Cloud pubblici e privati, ha evidenziato la crescita più significativa, raggiungendo una spesa di 3,729 miliardi di euro, con un aumento del 24% rispetto all’anno precedente. Questa componente sta diventando sempre più rilevante, evidenziando l’importanza della flessibilità nell’ambiente Cloud.

Le grandi imprese concentrano l’87% della spesa totale

La spesa Cloud in Italia è principalmente rappresentata dalle grandi imprese, che contribuiscono all’87% della spesa totale. Tuttavia, anche le piccole e medie imprese (PMI) stanno adottando servizi in Public Cloud in modo crescente, con una crescita del 34% rispetto al 2022, raggiungendo un totale di 478 milioni di euro.
Nel dettaglio, i servizi infrastrutturali (IaaS) sono cresciuti del 29% raggiungendo 1,511 miliardi di euro, equiparando la quota rappresentata dai servizi Software (SaaS). Questo aumento è stato sostenuto dagli investimenti delle grandi imprese in progetti strategici pluriennali, con contratti a tariffe bloccate, che hanno contribuito a mitigare gli effetti dell’inflazione. Il settore del Public & Hybrid Cloud è trainato principalmente dallo IaaS, che ora rappresenta il 41% del mix complessivo.

Inoltre, il Platform as a Service (PaaS) ha registrato un aumento del 27% raggiungendo 686 milioni di euro, grazie alle opportunità legate all’Intelligenza Artificiale e all’analisi dati. Il Software as a Service (SaaS) ha registrato un aumento del 19%, raggiungendo un valore complessivo di 1,532 miliardi di euro.

La trasformazione? Passa da una nuova cultura organizzativa 

Nonostante il successo del Cloud tra le grandi imprese, le sfide principali per una vera trasformazione digitale rimangono. Inoltre, esiste ancora una cultura organizzativa diffusa che misura l’efficacia del Cloud principalmente in base al risparmio sui costi rispetto a una configurazione on-premise, invece di considerarlo come un abilitatore dell’innovazione.

Questo aspetto ostacola la vera trasformazione. Infine, la gestione finanziaria del Cloud è diventata una sfida per molte organizzazioni, con il 74% che continua a gestire risorse e costi del Cloud secondo le logiche tradizionali dei sistemi on-premise. Ciò comporta difficoltà gestionali e può portare alla riduzione di servizi. Pertanto, per affrontare questa sfida, è necessario adottare approcci innovativi come il FinOps e sviluppare una maggiore maturità nella gestione dinamica delle risorse economiche dedicate al Cloud.

Cybersecurity: aumentano i furti di dati e gli alert sul dark web

Nel primo semestre dell’anno il numero di account che in tutto il mondo hanno visto compromesse le proprie credenziali è aumentato significativamente, spesso in combinazione con altri dati estremamente preziosi per gli hacker. Continuano quindi ad aumentare le attività fraudolente degli hacker, con il conseguente aumento anche del numero degli alert inviati sul dark web, arrivato a 911.960, per una crescita del +17,9% rispetto al secondo semestre 2022. Sull’open web, invece, il numero degli alert inviati è stato di oltre 45.600, segnando però una decrescita del -26,9% rispetto allo stesso periodo. Sono alcune delle evidenze principali emerse dall’ultima edizione dell’Osservatorio Cyber realizzato da CRIF.

“Le credenziali di account sono sempre più appetibili per i frodatori”

“Le evidenze dell’Osservatorio Cyber ci fanno riflettere sui rischi relativi alla circolazione dei nostri dati online – commenta Beatrice Rubini, Executive Director di CRIF -. In particolare, le informazioni di contatto e le credenziali di account diventano sempre più appetibili per i frodatori, rendendo possibili truffe e furti di identità. Infatti, se i criminali riescono a entrare in possesso di molteplici dati personali che aiutano a completare il profilo della vittima, riescono a progettare meglio gli attacchi, sfruttando anche tecniche di social engineering”.
Ma un’altra minaccia in forte crescita soprattutto per le aziende è il ransomware. Attraverso la double extortion, la duplice estorsione, oltre a subire il furto e la compromissione di informazioni sensibili, aumenta anche il rischio che queste vengano diffuse sul dark web. 

Il fenomeno in Italia

Per quanto riguarda l’Italia nel primo semestre 2023 oltre il 40% degli utenti ha ricevuto un alert relativo ai propri dati. Più in particolare, si rileva un aumento complessivo degli alert inviati relativamente a furto di dati monitorati sul dark web: praticamente 4 utenti su 5 hanno ricevuto avvisi di questo tipo. Sul web pubblico, invece, dove i dati sono praticamente accessibili a chiunque, gli utenti allertati sono stati il 20,5%. Qui i dati più frequentemente rilevati sono stati il codice fiscale (55,1%) e l’indirizzo email (32,3%), seguiti da numero di telefono (7,6%), username (2%) e indirizzo postale (3%).

Cosa fare?

“Bisogna prestare particolare attenzione alle e-mail e ai messaggi che riceviamo ogni giorno, allenandosi a riconoscere i tentativi di truffe e phishing – consiglia Beatrice Rubini -. È importante non cliccare sui link contenuti nelle email o negli sms sospetti, e soprattutto, non rispondere fornendo dati personali a messaggi apparentemente inviati dalla nostra banca o da un’altra azienda, controllando sempre il numero di telefono o l’indirizzo email del mittente. Diventa quindi sempre più importante per aziende pubbliche e private sviluppare sistemi di vulnerability assessment e fare campagne di sensibilizzazione interna dei propri dipendenti. Dall’altro lato, è consigliabile per i consumatori gestire i propri dati in maniera scrupolosa, affidandosi anche a strumenti che oggi permettono di proteggere i dispositivi e monitorare i nostri dati”. 

La matematica? Mette l’ansia anche all’Intelligenza Artificiale 

Un recente studio ha evidenziato come GPT-3, GPT-3.5 e GPT-4, modelli di intelligenza artificiale, associno la matematica a concetti negativi, alimentando l’ansia e la difficoltà che molti studenti italiani affrontano durante gli studi superiori, soprattutto in vista degli esami di maturità. Secondo lo studio pubblicato sulla rivista scientifica Big Data and Cognitive Computing, anche i grandi modelli di linguaggio come GPT-3, GPT-3.5 e persino GPT-4 associano la matematica ad aspetti fortemente negativi, come “difficile”, “frustrante” o “noioso”.
Questo comportamento è stato misurato attraverso le reti di “forma mentis comportamentale”, una sorta di mappa cognitiva che permette di comprendere la percezione di un concetto analizzando le sue associazioni con altri concetti. I risultati sono stati sorprendenti: GPT-3 e GPT-3.5, nella loro capacità di diffondere conoscenza, hanno associato la matematica a concetti noiosi, ansiosi, problematici e negativi, come un noioso viaggio su un’isola deserta, senza alcuna connessione positiva con le sue applicazioni reali e avventurose. 

Chat Gpt percepisce la matematica come… uno studente

“Questo risultato è in linea con le percezioni negative sulla matematica che abbiamo riscontrato negli studenti italiani delle scuole superiori”, afferma il professor Massimo Stella, co-autore dello studio e docente di psicometria presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. “A differenza dei professionisti che intraprendono carriere scientifiche e vedono la matematica come un tesoro creativo e pratico, questi modelli la considerano come qualcosa di astratto, distante dai progressi scientifici e dalla comprensione del mondo reale”.
Questa tendenza a percepire la matematica in modo negativo potrebbe avere gravi conseguenze, creando uno squalo nel tranquillo mare della conoscenza. Questi modelli di linguaggio agiscono come specchi psico-sociali, riflettendo pregiudizi e atteggiamenti che sono stati incorporati nel loro “DNA” linguistico durante il processo di allenamento. La mancanza di trasparenza rende difficile monitorare l’effetto delle risposte fornite da questi modelli. Non è ancora chiaro se queste associazioni negative possano influenzare negativamente alcuni utenti, aggravando l’ansia matematica già esistente.

Il rischio di estremizzare sentimenti negativi

Gli autori dello studio ritengono che le interazioni sociali con questi modelli potrebbero esacerbare gli stereotipi o le insicurezze preesistenti riguardo alla matematica tra gli studenti e persino tra i genitori. Potrebbero confermare atteggiamenti negativi già presenti o alimentare messaggi subliminali che la matematica è difficile per certi gruppi specifici. Questo fenomeno, noto come “minaccia dello stereotipo”, può influenzare le performance accademiche. Tali atteggiamenti negativi possono ostacolare l’apprendimento delle competenze tecniche in matematica e statistica, come una tempesta che impedisce di raggiungere l’isola della conoscenza.

Le paure dei modelli di linguaggio

Questo ci avverte che i modelli di linguaggio, nonostante la loro potenza, hanno anche le loro paure. Come noi, possono essere intimiditi dalla matematica. La sfida per il futuro è navigare attraverso queste tempeste, correggendo tali pregiudizi, in modo che questi modelli possano guidarci verso un mare di conoscenza più sereno e proficuo.

Intelligenza artificiale, quanto ne sappiamo noi italiani?

Anche i doppiatori italiani si sono uniti allo sciopero contro i turni massacranti e l’uso dell’Intelligenza Artificiale. Nel frattempo, un noto quotidiano italiano ha deciso di sfidare i propri lettori ogni giorno, pubblicando un articolo scritto con ChatGPT e mettendo in palio abbonamenti e champagne per chi riuscirà a individuarlo tra le pagine del giornale. Tuttavia, l’IA sembra aver scalzato il metaverso dal podio della notiziabilità. I prompt, ovvero i programmi che creano testi e contenuti in modo automatico, stanno diventando sempre più diffusi e rischiano di sostituire lavori ripetitivi che non richiedono la creatività e la passione dell’uomo. Ma quali sono i reali numeri del fenomeno in Italia?

Il 48,5% degli italiani non ha mai sentito parlare di ChatGPT

Per rispondere a questa domanda, la digital intelligence company The Fool ha condotto una ricerca basata su una survey fatta a 1.000 persone tra i 16 e i 64 anni in Italia nel mese di febbraio, utilizzando i dati di GWI. La survey ha evidenziato che il 48,5% degli intervistati non ha mai sentito parlare di ChatGPT, il sistema di intelligenza artificiale sviluppato da OpenAI. Solo l’8% degli intervistati ha dichiarato di usarlo, mentre il resto ne ha solo sentito parlare o non ne conosce le caratteristiche. Tuttavia, il 34% degli intervistati ha mostrato un qualche livello di interesse verso ChatGPT.

La maggior parte di chi lo usa lo trova utile

Tra coloro che utilizzano ChatGPT, la maggior parte lo fa almeno una volta a settimana, se non tutti i giorni. I casi d’uso principali sono il miglioramento o l’integrazione del lavoro già svolto, la sperimentazione e il divertimento, e la ricerca di informazioni e fatti. Il 75% degli utilizzatori trova ChatGPT utile.
Tuttavia, la survey ha anche rivelato che il 58% degli intervistati è preoccupato che gli strumenti di intelligenza artificiale possano essere usati per scopi poco o per niente etici, come la disinformazione o per aiutarsi nei compiti scolastici. Il 41% è preoccupato per l’impatto che gli strumenti di intelligenza artificiale possono avere sugli artisti e i creativi, mentre il 40% crede che i progressi nei tool di AI possano migliorare il lavoro. Infine, il 26% degli intervistati non è preoccupato per come gli strumenti di intelligenza artificiale possano essere sviluppati.

C’è ancora una bassa consapevolezza degli strumenti di IA

In conclusione, la ricerca di The Fool su ChatGPT e l’intelligenza artificiale ha rivelato una bassa consapevolezza dell’esistenza di ChatGPT tra gli intervistati, ma anche un discreto interesse tra coloro che ne hanno sentito parlare. La maggior parte degli utilizzatori lo trova utile per migliorare o integrare il proprio lavoro. Tuttavia, una percentuale significativa di intervistati ha espresso preoccupazioni sull’utilizzo etico degli strumenti di intelligenza artificiale. 

Big Data: il mercato italiano vale 2,41 miliardi di euro

Secondo la ricerca dell’Osservatorio Big Data & Business Analytics della School of Management del Politecnico di Milano, nel 2022 il mercato Data Management e Analytics in Italia raggiungerà 2,41 miliardi di euro, +20% rispetto all’anno scorso. La crescita è trainata soprattutto dalla componente software (54% del mercato, +25%), mentre la spesa in risorse infrastrutturali cresce in maniera meno sostenuta, sotto la media del mercato. Il buon andamento coinvolge tutti i settori merceologici, ma in controtendenza con gli anni precedenti, nel 2022 sono GDO/Retail, PA e Sanità i comparti che segnano la crescita più marcata. Il budget Analytics destinato a servizi di Public Cloud sale invece a un ritmo doppio rispetto alla media di mercato, e sfiora un quarto della spesa in soluzioni e servizi di Data Management & Analytics.

Le difficoltà delle grandi aziende e delle Pmi 

Nelle grandi aziende permane la difficoltà nell’inserimento di ruoli professionali specializzati su gestione e analisi dei dati: il 49% dichiara di aver introdotto almeno un Data Scientist, il 76% un Data Analyst e il 59% un Data Engineer. Inoltre, il 66% delle grandi realtà ha sperimentato tempi di recruiting più lunghi, e circa il 40% tassi di turnover più elevati. Quanto alle Pmi, il 55% dichiara di aver portato avanti investimenti in ambito Data Management & Analytics o prevede di farlo entro fine anno. Percentuale in crescita rispetto al 2021, ma che non mostra importanti accelerazioni rispetto agli ultimi tre anni. E quattro aziende su dieci non hanno alcuna figura dedicata all’analisi dei dati.

Importanti differenze tra il livello di maturità delle medie e piccole imprese

Così come già evidenziato negli scorsi anni, permangono importanti differenze tra il livello di maturità delle medie (50-249 addetti) e piccole (10-49 addetti) imprese. Le imprese di medie dimensioni hanno un livello medio di adozione delle tecnologie più alto delle piccole. Inoltre, solo un terzo dichiara di non avere personale dedicato, almeno parzialmente, all’analisi dei dati. La forbice tra piccole e medie registra comunque leggeri segnali di riduzione rispetto agli scorsi anni. Le piccole e medie imprese che hanno figure interne si affidano spesso anche a consulenti esterni, prevalentemente in maniera spot su specifici progetti.

Il Data Strategy Index

La ricerca ha costruito un indice di maturità complessivo relativo a tre ambiti (Data Management & Architecture, Business Intelligence e Descriptive Analytics, e Data Science), che mostra come solo il 15% delle grandi aziende può dirsi ‘avanzato’, mentre il 30% ‘intraprendente’, il 22% ‘prudente’ e il 33% ‘immaturo’ o ‘ai primi passi’. Negli ambiti Business Intelligence e Descriptive Analyticsle grandi organizzazioni però sono a buon punto. L’83% dichiara la presenza di competenze e il 69% sfrutta strumenti di Data Visualization avanzati. Sul fronte Data Science, prosegue la crescita delle organizzazioni che hanno avviato almeno una sperimentazione in ambito Advanced Analytics (65%). Le funzioni in cui la Data Science trova maggiore applicazione sono Marketing, Vendite, e Produzione, in cui risulta più semplice valorizzare in termini economici i risultati portati dalle singole progettualità.

Esports, che business: in Italia valgono 47 milioni di euro

Gli italiani sono appassionati di sport, sia come giocatori sia come spettatori, anche nel mondo digitale. Tanto che quello degli esports oggi è un settore in decisa crescita e che vanta un aumento dell’impatto economico superiore del 4%. È questo il quadro che emerge dalla seconda edizione del “Landscape del settore esports in Italia”, commissionato dall’associazione di settore italiana IIDEA a Nielsen. 
“Gli esports sono un segmento del settore dei videogiochi sempre più sviluppato anche nel nostro Paese, non solo in termini di fruizione da parte del pubblico, ma anche di maturazione e professionalizzazione dell’ecosistema locale”, ha commentato Marco Saletta, Presidente di IIDEA. La ricerca realizzata da Nielsen si basa su dati raccolti attraverso un’indagine ad hoc sugli stakeholder del settore (team, organizzatori, publisher e altre tipologie di operatori), integrata con dati di settore elaborati secondo l’expertise di Nielsen Sports. Secondo le stime di Nielsen, riferisce Adnkronos, l’impatto economico complessivo generato dal settore in Italia, che comprende impatto economico diretto e indiretto, ammonta a oltre 47 milioni di euro.

L’impatto economico diretto e indiretto

L’impatto economico diretto, ossia direttamente collegato all’occupazione generata dal settore, è di circa 38 milioni di euro a fronte dei 30 della precedente analisi. Di questi, il 55% (20,9 milioni) viene generato dai team di esports, seguiti dagli organizzatori con il 22% (8,4 milioni) e dai publisher con il 5% (2 milioni). Il restante 18% (6,7 milioni) viene generato da altre tipologie di società che operano nel mondo Esports (es. venue dedicate, produttori hardware, sviluppatori e altre categorie non assimilabili alle precedenti). Le principali categorie di spesa, in termini di occupazione, variano in relazione alla tipologia di entità considerata. I ruoli che all’interno del settore pesano maggiormente sul totale dei costi per il personale sostenuti sono pro-player, content creator e analyst/coach per i team, caster e commentatori, project manager e content creator per gli organizzatori e occupazioni in ambito marketing e PR per i publisher. L’impatto economico indiretto, generato da tutte le spese correlate al mondo degli Esports, come i servizi ausiliari e il merchandising, è invece superiore a 10 milioni di euro. A differenza di quanto rilevato per l’impatto diretto, sono i publisher che contribuiscono maggiormente con il 64% (circa 6,9 milioni) del totale. I team generano il 19% del valore indiretto mentre gli organizers il 14%. Il rimanente 3% (348mila) è riconducibile alle restanti categorie di società operanti nel settore. Le principali categorie di spesa sono marketing, travel/accomodation, finance/legal e amministrazione per i team, HR/personale, equipment e rental, finance/legal e amministrazione per gli organizzatori e infine marketing e merchandising per i publisher.

L’interesse degli stakeholder

I fan esports e sono un target esigente per quello che riguarda le prestazioni, le esperienze di gioco e il coinvolgimento. I risultati ottenuti tramite partnership, eventi ed experience, hanno dato agli attori coinvolti nel mondo esports una connotazione di eccellenza e un vantaggio competitivo in termini di percezione del proprio brand. Oltre ad incrementare l’awareness i brand hanno anche ottenuto buoni risultati in termini di customer acquistion nonché di networking e interazioni B2B. La partecipazione al mondo Esports sta avvenendo sia per via diretta (tramite la fornitura di prodotti dedicati) che indiretta (attraverso sponsorizzazioni o altre tipologie di investimenti). Indipendentemente dal posizionamento, i brand (endogeni ed esogeni) hanno come obiettivo quello di interagire e posizionarsi all’interno di un settore dinamico, caratterizzato da tratti quali innovazione e avanguardia.