Esports, che business: in Italia valgono 47 milioni di euro

Gli italiani sono appassionati di sport, sia come giocatori sia come spettatori, anche nel mondo digitale. Tanto che quello degli esports oggi è un settore in decisa crescita e che vanta un aumento dell’impatto economico superiore del 4%. È questo il quadro che emerge dalla seconda edizione del “Landscape del settore esports in Italia”, commissionato dall’associazione di settore italiana IIDEA a Nielsen. 
“Gli esports sono un segmento del settore dei videogiochi sempre più sviluppato anche nel nostro Paese, non solo in termini di fruizione da parte del pubblico, ma anche di maturazione e professionalizzazione dell’ecosistema locale”, ha commentato Marco Saletta, Presidente di IIDEA. La ricerca realizzata da Nielsen si basa su dati raccolti attraverso un’indagine ad hoc sugli stakeholder del settore (team, organizzatori, publisher e altre tipologie di operatori), integrata con dati di settore elaborati secondo l’expertise di Nielsen Sports. Secondo le stime di Nielsen, riferisce Adnkronos, l’impatto economico complessivo generato dal settore in Italia, che comprende impatto economico diretto e indiretto, ammonta a oltre 47 milioni di euro.

L’impatto economico diretto e indiretto

L’impatto economico diretto, ossia direttamente collegato all’occupazione generata dal settore, è di circa 38 milioni di euro a fronte dei 30 della precedente analisi. Di questi, il 55% (20,9 milioni) viene generato dai team di esports, seguiti dagli organizzatori con il 22% (8,4 milioni) e dai publisher con il 5% (2 milioni). Il restante 18% (6,7 milioni) viene generato da altre tipologie di società che operano nel mondo Esports (es. venue dedicate, produttori hardware, sviluppatori e altre categorie non assimilabili alle precedenti). Le principali categorie di spesa, in termini di occupazione, variano in relazione alla tipologia di entità considerata. I ruoli che all’interno del settore pesano maggiormente sul totale dei costi per il personale sostenuti sono pro-player, content creator e analyst/coach per i team, caster e commentatori, project manager e content creator per gli organizzatori e occupazioni in ambito marketing e PR per i publisher. L’impatto economico indiretto, generato da tutte le spese correlate al mondo degli Esports, come i servizi ausiliari e il merchandising, è invece superiore a 10 milioni di euro. A differenza di quanto rilevato per l’impatto diretto, sono i publisher che contribuiscono maggiormente con il 64% (circa 6,9 milioni) del totale. I team generano il 19% del valore indiretto mentre gli organizers il 14%. Il rimanente 3% (348mila) è riconducibile alle restanti categorie di società operanti nel settore. Le principali categorie di spesa sono marketing, travel/accomodation, finance/legal e amministrazione per i team, HR/personale, equipment e rental, finance/legal e amministrazione per gli organizzatori e infine marketing e merchandising per i publisher.

L’interesse degli stakeholder

I fan esports e sono un target esigente per quello che riguarda le prestazioni, le esperienze di gioco e il coinvolgimento. I risultati ottenuti tramite partnership, eventi ed experience, hanno dato agli attori coinvolti nel mondo esports una connotazione di eccellenza e un vantaggio competitivo in termini di percezione del proprio brand. Oltre ad incrementare l’awareness i brand hanno anche ottenuto buoni risultati in termini di customer acquistion nonché di networking e interazioni B2B. La partecipazione al mondo Esports sta avvenendo sia per via diretta (tramite la fornitura di prodotti dedicati) che indiretta (attraverso sponsorizzazioni o altre tipologie di investimenti). Indipendentemente dal posizionamento, i brand (endogeni ed esogeni) hanno come obiettivo quello di interagire e posizionarsi all’interno di un settore dinamico, caratterizzato da tratti quali innovazione e avanguardia.

Customer experience nel B2B: a che punto sono le aziende italiane?

Se nel mondo B2C la customer experience sembra ormai un fatto acquisito, lo stesso si può dire in ambito B2B? Probabilmente no, visto che solo un terzo delle imprese italiane si è mosso in questo senso: a dirlo è la ricerca dell’Osservatorio Customer Experience nel B2B della della School of Management del Politecnico di Milano. 

Cosa è la customer experience?

Prima di proseguire con i dati, è però opportuno capire cosa si definisca con questo temine. Per customer experience nel B2B “si intende l’effetto, positivo o negativo, derivante dalla relazione cliente-fornitore all’interno della filiera di appartenenza e durante tutte le fasi del customer journey, dal primo contatto all’assistenza post-vendita. Il rapporto cliente-fornitore cambia, anche significativamente, sulla base della tipologica di cliente considerato, di variabili di contesto e delle caratteristiche del cliente. La costruzione di una customer experience efficace dovrà tenere conto di tutti questi aspetti” riporta l’Osservatorio. All’interno della relazione cliente-fornitore giocano un ruolo fondamentale i punti di contatto, detti anche Touchpoint. Se gestiti in maniera sinergica, coerente e integrata – in una parola, omnicanale – consentono di creare valore dall’interazione cliente-fornitore per entrambi gli attori in gioco.

Solo il 34% delle aziende ha un approccio “cliente centrico”

Oggi, solo il 34% delle aziende B2B italiane ha già un approccio “customer centric”, capace di creare maggiore valore, perché basato sull’ascolto e l’attenzione verso il cliente, con strategie volte a cogliere le specifiche esigenze e caratteristiche peculiari di ciascuno. Il 16% è in fase di avvicinamento verso questo modello, ma la maggior parte – il 50% – è ancora focalizzato sulla componente di prodotto/servizio offerto. Ma cosa occorre per creare questa relazione col cliente? Una strategia orientata al cliente richiede prima di tutto un’organizzazione ad hoc, che coinvolga tutti gli attori e i processi nella relazione, con iniziative o strumenti declinati per ciascuna realtà. Eppure, il 66% delle aziende italiane ha con i propri clienti un rapporto limitato a un solo scambio di informazioni di natura tecnica e/o commerciale, il 20% ha attivato una relazione strategica basata su uno scambio di dati o informazioni (dati di sell-out granulari, condivisione di liste di clienti/lead con il proprio distributore) e appena il 14% sta evolvendo verso una relazione di supporto e ascolto reciproco, lo step abilitante la costruzione di una relazione collaborativa. Per un modello “cliente centrico”, poi, serve un’opportuna dotazione tecnologica di piattaforme e strumenti in grado di valorizzare gli scambi informativi.

Perdono terreno le surroghe, i prestiti per le famiglie restano alti

Andamento diversificato per i prestiti alle famiglie e per i mutui, poichè questi ultimi scontano il calo delle surroghe. E’ quanto emerge dall’ultima edizione del Barometro CRIF, relativo ai primi 9 mesi del 2022. Nel periodo in esame si evidenzia che il numero delle richieste di prestiti (personali e finalizzati) fa segnare una crescita del +21,7% rispetto al corrispondente periodo 2021. Relativamente al solo mese di settembre appena concluso, le richieste di prestiti crescono del +12,2%. Le surroghe, invece, cedono la metà dei volumi e segnano un -61,9%, condizionando in negativo l’intero settore dei mutui.

Importi più ridotti per i prestiti

Anche se l’andamento dei prestiti rimane sostenuto, cala invece l’importo medio richiesto che si attesta a 8.313 euro, in calo del -6,1% rispetto ai primi 9 mesi del 2021. Una conferma della crescente tendenza a fare ricorso a un finanziamento anche per sostenere acquisti di importo contenuto, quali telefonia, piccoli elettrodomestici e prodotti di elettronica. Se guardiamo allo spaccato dei prestiti finalizzati e personali, continuano a crescere a doppia cifra e con la stessa intensità: i primi aumentano del +21,3% mentre i secondi segnano un +22,4%.

Situazione inversa per i mutui

Per quanto riguarda invece l’andamento delle richieste di mutui immobiliari e surroghe, dall’inizio dell’anno si registra una contrazione complessiva del -22,6% rispetto ai primi nove mesi del 2021 (-25,5% la flessione nel mese di settembre) ma va rimarcato come la performance negativa del comparto sia ascrivibile al crollo verticale delle surroghe che, secondo l’ultima rilevazione prodotta da CRIF, sono diminuite del -61,9% rispetto al 2021 e ormai spigano poco più dell’8,5% del totale.
I nuovi mutui, invece, restano sostanzialmente stabili rispetto alla corrispondente rilevazione, tanto che a livello di erogazioni il calo si attesta a un modesto -1,7%. In compenso, nei primi 9 mesi del 2022 l’importo medio dei mutui richiesti è cresciuto del +4,7% rispetto al corrispondente periodo 2021, attestandosi a 144.658 euro. Relativamente ai mutui va anche sottolineato che in questi primi 9 mesi dell’anno il 35,6% delle richieste sia stato presentato da giovani under 35 anche se la vivacità di questo segmento si sta velocemente attenuando dal momento che il rialzo dei tassi ha reso progressivamente meno conveniente l’offerta di mutui giovani a tasso fisso garantiti dal Fondo di Garanzia Consap.

Stanno per sparire le password?

Password addio? Forse sì. In effetti, le password sono un vero e proprio attentato alla nostra memoria. “Negli ultimi anni c’è stato un allarmante aumento del numero di password che una persona deve ricordare”, scrive El Paìs. Un recente rapporto rileva, ad esempio, che i dipendenti delle piccole e medie imprese ne utilizzano fino a 85 mentre quelli delle grandi aziende, in media, circa 25. Ora la domanda è: ma le password come le conosciamo oggi scompariranno prima o poi?

Come si stanno muovendo Apple e Google

In effetti la domanda non è poi così campata in aria. Colossi tecnologici come Apple e Google stanno infatti cercando di sviluppare soluzioni “in modo che gli utenti non debbano memorizzare tutte queste credenziali e assicurarsi che siano al sicuro” scrive il quotidiano di Madrid. Ad esempio, Apple, con il suo nuovo sistema operativo per iPhone, ha avviato una sostituzione della password, tanto che gli smartphone “sono più veloci nell’accesso, più facili da usare e molto più sicuri”, afferma l’azienda.
In pratica, questo nuovo sistema “consente all’utente di accedere a qualsiasi applicazione o servizio tramite Face ID o Touch ID, i sistemi di riconoscimento facciale e di identificazione delle impronte digitali Apple, senza inserire manualmente alcuna chiave di accesso” riporta ancora il quotidiano. 

Sistemi più efficaci contro il phishing

Questi sistemi, poi,  sono più efficaci nel contrastare ad esempio il phishing, poichè tali tecnologie impediscono di inserire le nostre credenziali o i dati sensibili in siti fraudolenti pronti a rubarle, dato che l’identificazione come utente è gestita in un point-to-point crittografato tra il nostro dispositivo e il servizio online a cui si desidera accedere. Oggi i nuovi strumenti Apple hanno chiavi di accesso crittografate e sincronizzate su tutti i dispositivi della Mela tramite il portachiavi iCloud. Se viene utilizzato un dispositivo non compatibile con questo sistema di archiviazione cloud, viene generato un codice QR che deve essere scansionato con l’iPhone. Sebbene questo metodo di accesso sembri abbastanza promettente, non tutte le app attualmente lo supportano.

Obiettivo password addio

L’eliminazione delle password è comunque diventata una delle principali sfide per le grandi aziende tecnologiche per risolvere alcuni problemi di sicurezza sul web. Ma ci sono degli svantaggi: uno dei problemi con i sistemi di autenticazione che utilizzano l’identificazione biometrica è che non si può modificare. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Tel Aviv in Israele, però, ha già fatto sapere  di aver capito come aggirare una gran parte dei sistemi di riconoscimento facciale, dato che pure i sistemi biometrici non sono infallibili. Insomma, le password prima o poi spariranno: ma non sarà oggi.

Lavoro: quali sono le figure digital più ricercate dopo la pausa estiva?

Dopo i mesi estivi, a settembre e ottobre il mercato del lavoro riprende vita. “Ogni anno, tra luglio e agosto, il mercato del lavoro tende a rallentare – spiega Carola Adami, fondatrice di Adami & Associati -: da una parte le aziende affrontano importanti periodi di chiusura, dall’altra i candidati sono meno propensi a candidarsi. In queste settimane, invece, le aziende stanno riprendendo tutti i processi che erano stati messi in pausa prima dell’arrivo dell’estate”. Le prossime settimane rappresentano quindi un ottimo periodo per cercare lavoro.
“Il periodo favorevole va fino alla metà di novembre – continua Adami -, quando iniziano fisiologicamente a calare le ricerche da parte delle aziende, in vista del blocco natalizio e della chiusura dell’anno e dei progetti in corso”. Ma quali sono le figure professionali più ricercate? Quelle digital, ovviamente.

Cercasi programmatore informatico

A dominare il mercato sono infatti soprattutto le figure digital, anche grazie al continuo processo di modernizzazione digitalizzazione delle imprese italiane. “Il comparto tecnologico continua a essere estremamente vivace – conferma l’head hunter -, con le aziende del settore alla costante ricerca di personale qualificato o altamente qualificato”.
Si parla quindi, ad esempio, del programmatore informatico. “Il mercato del lavoro è alla continua ricerca di figure in grado di sviluppare software e app, con aziende, che per via del numero ridotto di candidati, hanno molto spesso difficoltà nel portare a termine in modo efficace il processo di selezione del personale”, puntualizza Adami.

Ingegneri esperti di machine learning e Intelligenza artificiale

Quanto le qualifiche più specifiche, e le nicchie destinate a diventare sempre più importanti, sta crescendo il numero di ricerche di ingegneri esperti nel campo del machine learning e dell’Intelligenza artificiale.
“Molte aziende italiane e tante multinazionali hanno bisogno di professionisti in grado di creare algoritmi capaci di rendere autonomi i sistemi digitali, e non solo, per le applicazioni nelle più diverse attività industriali e commerciali”.

Specialista Iot e cybersecurity

Restando nel campo delle professioni più cercate negli ultimi anni, l’head hunter cita poi lo specialista di Internet of Things, “una figura professionale con le competenze necessarie per trasformare in realtà l’Internet delle Cose, dando alle aziende la possibilità di sfruttare in modo efficace il sempre più vasto ecosistema IoT”.
Di certo, considerato il continuo espandersi dei dispositivi connessi e la sempre maggiore centralità delle reti, non può che essere sempre più ricercata anche la figura dell’esperto in cybersecurity. A spingere in questa direzione sono sia le minacce informatiche sempre più presenti, sia l’evoluzione delle normative per quanto riguarda la privacy e il web.

Meta sta pianificando funzionalità a pagamento per le sue app

Lo riporta il sito specializzato in tecnologia The Verge, che ha potuto visionare un memo interno inviato di recente ai dipendenti della società di Mark Zuckerberg: pare che Meta si stia apprestando a mettere in piedi un team ad hoc per pianificare possibili funzionalità a pagamento per le sue app Facebook, Instagram e WhatsApp.
La nuova divisione, sottolinea The Verge, è la prima seria incursione di Meta nella creazione di funzionalità a pagamento nelle sue principali app, che insieme contano miliardi di utenti in tutto il mondo.

Un gruppo di lavoro ad hoc: il New Monetization Experiences 

Il gruppo di lavoro costituito da Meta è stato chiamato New Monetization Experiences, e sarà guidato da Pratiti Raychoudhury, che in precedenza ricopriva il ruolo di capo della ricerca di Meta.
“Vediamo opportunità per creare nuovi tipi di prodotti, funzionalità ed esperienze per cui le persone sarebbero disposte a pagare e per cui sarebbero entusiaste di pagare”, ha affermato a The Verge John Hegeman, vicepresidente Monetizzazione di Meta, che supervisiona il gruppo e che ha fatto intendere per l’implementazione delle funzionalità “un orizzonte temporale di cinque anni”.

Da Twitter a TikTok tutti i social vogliono “monetizzare” sui creators

In realtà, sulle piattaforme di Meta sono già presenti funzionalità a pagamento, come ad esempio nei gruppi di Facebook, in cui gli amministratori possono addebitare l’accesso a contenuti esclusivi. Oppure su WhatsApp, dove ad alcune aziende viene addebitata la possibilità di inviare messaggi ai propri clienti. Instagram ha invece recentemente annunciato che i creatori potrebbero anche iniziare ad addebitare un abbonamento per l’accesso a contenuti esclusivi. Del resto, anche altri social come Twitter e TikTok hanno iniziato a testare contenuti a pagamento per i creators, riferisce Ansa.

Diminuiscono i ricavi: colpa degli investimenti dirottati sul Metaverso?

La decisone di apportare funzionalità a pagamento per le proprie app arriva dopo un calo di introiti per la società sia nella raccolta pubblicitaria sia negli investimenti dirottati nel Metaverso, la nuova scommessa della compagnia. L’ultima trimestrale di luglio ha infatti certificato ricavi diminuiti anno su anno per la prima volta in assoluto. Di fatto, l’azienda di Zuckerberg è alle prese con la contrazione del settore e con la modifica firmata Apple del suo sistema App Tracking Transparency, che dà la possibilità agli utenti di non fornire informazioni dettagliate agli inserzionisti. Insomma, riferisce Il Giornale, per Meta le stime non sorridono, ed è previsto ‘un anno difficile’ sul lato economico. Secondo Hegeman, quindi, le funzionalità a pagamento potrebbero diventare una parte significativa dell’attività di Meta a lungo termine.

Credito specializzato: primo trimestre 2022 superati i livelli pre-pandemia

È quanto emerge dalla 15esima analisi annuale dei dati aggregati relativi al credito specializzato effettuata dalle associazioni di categoria Assifact, Assilea e Assofin: nonostante le incertezze generate dal contesto geopolitico e le tensioni macro-economiche, nei primi tre mesi del 2022 il credito specializzato ha superato i livelli pre-pandemia. Confrontando i dati con lo stesso periodo del 2019, la nuova produzione evidenzia infatti una variazione positiva del +7,7%. I diversi comparti, tuttavia, mostrano trend differenti. A fronte di una decisa crescita del valore dello stipulato nel mercato del leasing, la crescita del turnover è più contenuta per il factoring e le erogazioni di credito alle famiglie.

A fine 2021 circa 503,3 miliardi di euro di crediti

Nel contesto di ripresa che ha caratterizzato il Paese nel 2021, con il Pil annuale che ha segnato un +6,6%, l’attività degli associati delle tre associazioni di categoria Assifact, Assilea e Assofin è risultata pari a 365,4 miliardi di euro in termini di volume, segnando un aumento dell’11,9% rispetto al 2020 e incrementando la sua quota sul Pil del 20,6% (era il 19,8% nel 2020). La crescita è più marcata per il leasing (+25,6%), ma anche il credito alle famiglie (+13,4%) e il factoring (+10,0%) evidenziano incrementi a doppia cifra. I crediti in essere complessivi a fine 2021 si attestano a circa 503,3 miliardi di euro, e tornano così in territorio appena positivo (+0,4%), dopo il calo del 2020.

Le banche generaliste detengono il 59,8% del totale outstanding

Nel 2021 in ciascun settore si riscontra, tuttavia, un trend differente, che risulta in miglioramento per il factoring (+5,5%) e per il credito alle famiglie (+1.3%), mentre il leasing ha chiuso l’anno con una riduzione dell’8,3% dello stock. Nonostante il 67,8% dei flussi totali di credito provenga dagli operatori specializzati e il 32,2% dalle banche generaliste, il 59,8% del totale outstanding è detenuto dalle banche generaliste, quota sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente.

Un ruolo cruciale per la ripresa del Paese

“Il credito specializzato – si legge nell’analisi – conferma il suo ruolo di particolare importanza nell’ambito dell’economia italiana, cruciale anche per la ripresa del Paese, assicurando, attraverso i diversi comparti che lo compongono, strumenti flessibili a supporto delle esigenze di imprese e famiglie”.
La nuova produzione di credito specializzato nel 2021 rappresenta il 26,8% degli impieghi totali di banche e intermediari finanziari, quota significativa e sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente. Attraverso le forme di credito specializzato sono stati finanziati l’8,1% degli investimenti delle imprese e l’8,5% della spesa delle famiglie, quote entrambe in crescita rispetto all’anno precedente.

Sei milioni di italiani in vacanza con cane o gatto

Fido e Micio non si lasciano a casa: i pet fanno parte del nucleo familiare e per questo sei milioni di italiani partono per le vacanze con il loro animale al seguito. In particolare, poco meno della metà dei proprietari di cani (il 42,4%) farà le ferie in compagnia dell’amico a quattrozampe, percentuale che sale al 58,7% nella fascia di età 45-54enni. I dati sono stati diffusi in un’indagine commissionata da Facile.it all’istituto di ricerca EMG Different.

Viaggiare in sicurezza

Sebbene quasi 1 proprietario su 2 (45,9%) sia disposto a spendere di più pur di avere maggiori servizi per l’amico a quattro zampe, sono ancora tanti i padroni che non pensano a tutelare i loro animali con un’assicurazione che li metta al riparo da eventuali imprevisti durante le ferie e, addirittura 8,4 milioni (34,5%), tra chi possiede un animale, non sanno neanche che esistano polizze specifiche per Fido e Micio. Così, anche se molti italiani viaggiano con i propri animali al seguito, sono ancora pochi coloro che hanno l’abitudine di assicurarli da eventuali imprevisti durante le vacanze e addirittura 8,4 milioni di proprietari hanno ammesso di non conoscere l’esistenza di questa tipologia di polizze. Sono, invece, circa 5 milioni i possessori di animali che hanno dichiarato di aver sottoscritto in passato un’assicurazione specifica dedicata ai pet, in aumento di circa 5 punti percentuali rispetto a quanto rilevato nel 2020, mentre quasi 2 su 10 (18%) hanno detto di essere intenzionati a stipularne una in futuro. In merito ai prodotti assicurativi a misura di pet, vale la pena segnalare che oltre alla normale copertura RC contro eventuali danni arrecati a terzi e al rimborso delle spese in caso di malattia o infortunio, alcuni prodotti mettono a disposizione una centrale operativa specializzata nell’organizzazione di vacanze pet friendly, con un supporto che va dalla ricerca della struttura ricettiva più adatta, fino alla spiaggia o ai ristoranti a misura di “cane e gatto”.

La scelta della destinazione tiene conto di tutti

Il benessere dell’animale, anche in vacanza, è importante per i proprietari. Tanti che sei padroni su 10 prima di scegliere la meta del soggiorno si informano se siano ammessi animali domestici, il 24,4% dichiara di scegliere mete raggiungibili in auto, mentre 5,4 milioni, semplicemente, scelgono posti vicini al loro luogo di residenza. Non solo; 11,2 milioni di proprietari sono disposti a pagare di più affinché l’animale goda di maggiori servizi e, nonostante l’inflazione e il rincaro generale dei beni che sta mettendo a dura prova gli italiani, la percentuale di chi è disposto a pagare di più per far star bene il proprio animale in vacanza risulta più alta del 13,6% rispetto al 2020. Per queste vacanze, l’alloggio preferito risulta essere in strutture ricettive come alberghi, agriturismi, hotel e B&B, scelti da 2,3 milioni di possessori di animali (38,5%).

Orario flessibile, benessere e fiducia: ecco cosa chiedono i lavoratori ai loro titolari

“Le tensioni degli ultimi due anni ci hanno costretti a riflettere su ciò a cui diamo veramente valore e abbiamo l’opportunità, unica per questa generazione, di ripensare il nostro modo di lavorare e di vivere”, ha dichiarato Arianna Huffington, fondatrice e ceo di Thrive, azienda specializzata nelle soluzioni tecnologiche per il cambiamento dei comportamenti. E sono proprio i lavoratori a chiedere ai loro titolai e manager la possibilità di evolvere i rapporti di lavoro, dando priorità a valori quali la flessibilità, la fiducia  I lavoratori chiedono ai loro datori di lavoro di passare e il benessere. Sono alcune delle evidenze emerse dalla ricerca What workers want: dalla ricerca alla realizzazione sul lavoro, condotta da ManpowerGroup, multinazionale leader nelle innovative workforce solutions, e Thrive.

Per gli italiani la flessibilità è un valore prioritario

L’indagine è stata realizzata coinvolgendo oltre 5.000 lavoratori in cinque Paesi di cui più di un migliaio in Italia e rivela che la quasi totalità dei lavoratori italiani (96%) considera la flessibilità importante. Tuttavia, la natura di tale flessibilità varia. In questo momento la richiesta delle persone è di una flessibilità ritagliata sulle loro esigenze, con il 51% che vuole scegliere l’orario di inizio e fine lavoro e il 17% che sarebbe disposto a rinunciare a un giorno di stipendio per lavorare quattro giorni alla settimana, pur di raggiungere un migliore equilibrio tra vita privata e lavoro. I risultati indicano anche che il ruolo dei leader sta cambiando, poiché la fiducia e i valori condivisi sono sempre più importanti e i lavoratori sono disposti ad andarsene se non si sentono adeguatamente supportati. Secondo l’indagine, la fiducia è un fattore chiave per una forza lavoro sana e felice. La fiducia nei colleghi è giudicata importante dall’82% dei lavoratori italiani, seconda solo all’equità della retribuzione (88%) e alla sicurezza delle condizioni di lavoro (87%), mentre la fiducia nei leader è stata giudicata un requisito necessario da più di due terzi degli intervistati (69%). Inoltre, le persone vogliono lavorare per aziende con cui condividono valori e convinzioni (69%), e il 73% cerca un significato personale nel proprio lavoro quotidiano.

Salute mentale in primo piano

Un altro aspetto interessante è quello che riguarda il benessere dei dipendenti. La pandemia ha posto la salute mentale in cima all’agenda pubblica e aziendale e i lavoratori vedono ora il benessere come una responsabilità condivisa con i datori di lavoro. I livelli di stress in Italia sono diminuiti rispetto al picco della pandemia (dal 42% al 36%), ma sono ancora superiori a quelli precedenti al marzo 2020 (29%). Sempre più spesso i datori di lavoro saranno chiamati ad affrontare il burnout, a contribuire a costruire la resilienza e a supportare azioni per il miglioramento del benessere delle persone.

GenZ: sullo shopping è diversa da tutte le altre

Secondo Manhattan Associates un aggettivo per descrivere la Gen Z potrebbe essere Generazione Omnichannel, perché è la prima generazione completamente omnicanale che frequenta, in egual modo, le vie dello shopping e le piattaforme social. La Gen Z, infatti, acquista ovunque convenga di più e nel momento che reputa migliore, senza necessariamente preferire un mezzo particolare per trovare ciò che desidera. Secondo un recente articolo di Vogue, ci sono il 56% di possibilità in più che la Gen Z abbia acquistato articoli fashion in-store negli ultimi tre mesi, e il 38% che abbia acquistato online nello stesso intervallo di tempo. Inoltre, vogliono acquistare su diversi canali, desiderano articoli di alta qualità e vogliono sempre essere aggiornati sui nuovi trend culturali. Questa consapevolezza dei trend sta evidenziando alcuni fattori chiave, non ultimo il fatto che la Generazione Omnichannel sia più attenta alle questioni ambientali e al modo in cui avranno impatto sul futuro.

Viva il second hand 

Allo stesso tempo, la Generazione Z è considerata il gruppo più critico, con una visione dell’acquisto e del consumo molto diversa rispetto a quelle precedenti. Sono gli ultimi a essere entrati nel mondo del lavoro, quelli che avranno grande potere d’acquisto nei prossimi decenni, e questo significa che i brand dovranno guadagnarsi la loro fiducia. Inoltre, la frequenza di acquisto di nuovi articoli da parte della Gen Z è stata radicalmente influenzata dal mercato dei prodotti di seconda mano e vintage, un tipo di mercato che ha il 28% di possibilità in più per questa generazione.

Le soluzioni BNPL

Secondo PayPal, il 22% della Generazione Omnichannel ha utilizzato soluzioni BNPL (Buy-Now, Pay-Later) per acquistare articoli più cari e di miglior qualità. Dall’inizio della pandemia, infatti, il 123% ha utilizzato il BNPL rispetto a prima, rappresentando così la quota più elevata rispetto a tutte le altre generazioni. Inoltre, la Gen Z ha continuato ad adottare soluzioni di pagamento mobile, app e wallet più velocemente di qualsiasi altro gruppo di consumatori. L’aspettativa di poter pagare come, quando e con quale dispositivo o piattaforma desiderano è qualcosa che ormai fa parte delle loro abitudini d’acquisto. Di conseguenza, le tecnologie tradizionali di pagamento e Point-of-Sale (PoS) devono essere aggiornate e poter offrire queste diverse soluzioni.

La nuova potenza culturale ed economica nel retail

Un’azienda che voglia avere successo di fronte a una costante evoluzione, riporta Ansa, deve quindi essere abbastanza agile non solo da introdurre diverse opzioni di acquisto, ma deve anche riuscire a supportarle con le funzionalità necessarie per soddisfare le aspettative di nuovi gruppi. La Generazione Omnichannel è la nuova potenza culturale ed economica nel contesto del retail, e continuerà a dettare il cambiamento culturale, le abitudini di acquisto, e molto altro nei prossimi 20 anni.