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Stanno per sparire le password?

Password addio? Forse sì. In effetti, le password sono un vero e proprio attentato alla nostra memoria. “Negli ultimi anni c’è stato un allarmante aumento del numero di password che una persona deve ricordare”, scrive El Paìs. Un recente rapporto rileva, ad esempio, che i dipendenti delle piccole e medie imprese ne utilizzano fino a 85 mentre quelli delle grandi aziende, in media, circa 25. Ora la domanda è: ma le password come le conosciamo oggi scompariranno prima o poi?

Come si stanno muovendo Apple e Google

In effetti la domanda non è poi così campata in aria. Colossi tecnologici come Apple e Google stanno infatti cercando di sviluppare soluzioni “in modo che gli utenti non debbano memorizzare tutte queste credenziali e assicurarsi che siano al sicuro” scrive il quotidiano di Madrid. Ad esempio, Apple, con il suo nuovo sistema operativo per iPhone, ha avviato una sostituzione della password, tanto che gli smartphone “sono più veloci nell’accesso, più facili da usare e molto più sicuri”, afferma l’azienda.
In pratica, questo nuovo sistema “consente all’utente di accedere a qualsiasi applicazione o servizio tramite Face ID o Touch ID, i sistemi di riconoscimento facciale e di identificazione delle impronte digitali Apple, senza inserire manualmente alcuna chiave di accesso” riporta ancora il quotidiano. 

Sistemi più efficaci contro il phishing

Questi sistemi, poi,  sono più efficaci nel contrastare ad esempio il phishing, poichè tali tecnologie impediscono di inserire le nostre credenziali o i dati sensibili in siti fraudolenti pronti a rubarle, dato che l’identificazione come utente è gestita in un point-to-point crittografato tra il nostro dispositivo e il servizio online a cui si desidera accedere. Oggi i nuovi strumenti Apple hanno chiavi di accesso crittografate e sincronizzate su tutti i dispositivi della Mela tramite il portachiavi iCloud. Se viene utilizzato un dispositivo non compatibile con questo sistema di archiviazione cloud, viene generato un codice QR che deve essere scansionato con l’iPhone. Sebbene questo metodo di accesso sembri abbastanza promettente, non tutte le app attualmente lo supportano.

Obiettivo password addio

L’eliminazione delle password è comunque diventata una delle principali sfide per le grandi aziende tecnologiche per risolvere alcuni problemi di sicurezza sul web. Ma ci sono degli svantaggi: uno dei problemi con i sistemi di autenticazione che utilizzano l’identificazione biometrica è che non si può modificare. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Tel Aviv in Israele, però, ha già fatto sapere  di aver capito come aggirare una gran parte dei sistemi di riconoscimento facciale, dato che pure i sistemi biometrici non sono infallibili. Insomma, le password prima o poi spariranno: ma non sarà oggi.

Meta sta pianificando funzionalità a pagamento per le sue app

Lo riporta il sito specializzato in tecnologia The Verge, che ha potuto visionare un memo interno inviato di recente ai dipendenti della società di Mark Zuckerberg: pare che Meta si stia apprestando a mettere in piedi un team ad hoc per pianificare possibili funzionalità a pagamento per le sue app Facebook, Instagram e WhatsApp.
La nuova divisione, sottolinea The Verge, è la prima seria incursione di Meta nella creazione di funzionalità a pagamento nelle sue principali app, che insieme contano miliardi di utenti in tutto il mondo.

Un gruppo di lavoro ad hoc: il New Monetization Experiences 

Il gruppo di lavoro costituito da Meta è stato chiamato New Monetization Experiences, e sarà guidato da Pratiti Raychoudhury, che in precedenza ricopriva il ruolo di capo della ricerca di Meta.
“Vediamo opportunità per creare nuovi tipi di prodotti, funzionalità ed esperienze per cui le persone sarebbero disposte a pagare e per cui sarebbero entusiaste di pagare”, ha affermato a The Verge John Hegeman, vicepresidente Monetizzazione di Meta, che supervisiona il gruppo e che ha fatto intendere per l’implementazione delle funzionalità “un orizzonte temporale di cinque anni”.

Da Twitter a TikTok tutti i social vogliono “monetizzare” sui creators

In realtà, sulle piattaforme di Meta sono già presenti funzionalità a pagamento, come ad esempio nei gruppi di Facebook, in cui gli amministratori possono addebitare l’accesso a contenuti esclusivi. Oppure su WhatsApp, dove ad alcune aziende viene addebitata la possibilità di inviare messaggi ai propri clienti. Instagram ha invece recentemente annunciato che i creatori potrebbero anche iniziare ad addebitare un abbonamento per l’accesso a contenuti esclusivi. Del resto, anche altri social come Twitter e TikTok hanno iniziato a testare contenuti a pagamento per i creators, riferisce Ansa.

Diminuiscono i ricavi: colpa degli investimenti dirottati sul Metaverso?

La decisone di apportare funzionalità a pagamento per le proprie app arriva dopo un calo di introiti per la società sia nella raccolta pubblicitaria sia negli investimenti dirottati nel Metaverso, la nuova scommessa della compagnia. L’ultima trimestrale di luglio ha infatti certificato ricavi diminuiti anno su anno per la prima volta in assoluto. Di fatto, l’azienda di Zuckerberg è alle prese con la contrazione del settore e con la modifica firmata Apple del suo sistema App Tracking Transparency, che dà la possibilità agli utenti di non fornire informazioni dettagliate agli inserzionisti. Insomma, riferisce Il Giornale, per Meta le stime non sorridono, ed è previsto ‘un anno difficile’ sul lato economico. Secondo Hegeman, quindi, le funzionalità a pagamento potrebbero diventare una parte significativa dell’attività di Meta a lungo termine.

Sono oltre 4 miliardi gli utenti globali dei social media

Per la precisione sono 4,62 miliardi le persone che, in tutto il mondo, utilizzano i social media. Un dato impressionante, che conferma che il 58,4% della popolazione globale sia diventata nel corso del tempo fan delle piattaforme social Al di la dei pregiudizi e dei giudizi spesso superficiali che riguardano l’universo social, è un dato di fatto che questi strumenti abbiamo completamente rivoluzionato il modo di comunicare, informarsi, intrattenersi e pure lavorare. Insomma, i social fanno talmente parte della nostra vita che vengono addirittura celebrati con un Social Media Day, giornata che cade il 30 giugno di ogni anno.

Come è iniziata

Il Social Media Day è stato introdotto per la prima volta nel 2010 peri iniziativa del sito specializzato americano Mashable dopo aver visto l’impatto di queste piattaforme sulla società e anche sul mondo del lavoro. La prima piattaforma di social media è stata Friendster nel 2002, poi è arrivato Linkedin nel 2003 e Facebook nel 2004 che ha fatto realmente emergere la portata di questi strumenti. L’aggiunta più recente all’elenco dei pesi massimi dei social media, riferisce Ansa, è TikTok. L’app è stata lanciata nel 2016 ed è diventata popolare soprattutto tra i giovani grazie alle sue funzionalità di musica e video. Oggi tra le piattaforme di social media più utilizzate ci sono Facebook, Twitter, LinkedIn, Instagram, WhatsApp e TikTok.

2 ore e 27 minuti l’utilizzo medio giornaliero

Ma ci sono anche altri dati interessanti relativi all’uso dei social, oltre ai numeri relativi alla platea globale. Secondo una statistica di SmartinsIghts oltre la metà della popolazione globale usa i social media (il 58,4%, pari a 4.62 miliardi di persone), l’utilizzo medio giornaliero è di 2 ore e 27 minuti. Queste piattaforme sono però diventate un grimaldello per i cybercriminali per risalire alle abitudini degli utenti e alle password usate. Per questo gli esperti della società di sicurezza Yoroi consigliano di limitare la condivisione di informazioni personali, usare email, login e password diverse per i differenti servizi che usiamo, costruire password lunghe, robuste e complesse senza riferimento a hobby, passioni e residenza. 

Il buono dei social

L’impatto socio-economico e culturale dei social media sulla società e sull’economia è stato impressionante e il Social Media Day riconosce questo potere. Un altro motivo per cui Mashable ha lanciato la giornata mondiale dei social è per dimostrare il ruolo che queste piattaforme hanno e hanno avuto sulle comunicazioni in tutto il mondo. Nonostante tutte le preoccupazioni associate ai social media, è una dato di fatto che le piattaforme più utilizzate hanno dato voce alle persone comuni e hanno dato spesso l’opportunità di informare l’opinione pubblica.

ecommerce in Italia, come siamo messi? Bene, ma non benissimo

L’e-commerce è “esploso” in tutto il mondo, soprattutto a seguito della pandemia di coronavirus che ha cambiato radicalmente le modalità di acquisto degli italiani. L’onda lunga dello shopping on line ha coinvolto tutti i paesi, seppur con delle diversità. Ci sono le piazze da sempre più orientate al digitale, e invece dei paesi che ancora dimostrano qualche resistenza. Comunque sia, il mercato dell’e-commerce B2C, nel mondo, vale 4.280 miliardi di dollari e raggiungerà quota 4.891 miliardi nel corso del 2021. 

Italia, pesano i ritardi nell’adozione tecnologica

Il valore del mercato e-commerce a livello globale è immenso, quindi. In questo contesto, dove si colloca l’Italia? Non nelle posizioni più alte, penalizzando il Belpaese che non riesce ad aggiudicarsi questo tesoretto: pesano i ritardi nell’adozione di tecnologia all’avanguardia e nell’utilizzo strategico del content marketing. Lo sostiene una indagine condotta da Timotico, società di comunicazione integrata. “Ci sono aziende – afferma con un comunicato Federica Argentieri, Ad e fondatrice di Timotico – anche molto affermate da generazioni che si trovano in crisi dal momento che la concorrenza online gli sta rubando grossissime fette di mercato”. L’80% delle Pmi coinvolte nell’indagine afferma di avere un proprio sito web, “ma sono poche quelle con siti ottimizzati, performanti anche su mobile e costantemente aggiornati. E questo nonostante il fatto che 50 milioni di italiani siano connessi ogni giorno”.

L’importanza dell’approccio professionale

In base ai dati raccolti nello studio, emerge con chiarezza che per emergere nel mondo dell’e-commerce non basta investire ingenti risorse in promozione se prima non si sono curati nel dettaglio i contenuti da proporre, differenziati a seconda degli obiettivi prefissati e del mezzo attraverso il quale sono comunicati. Anzi, riporta Askanews, potrebbe addirittura risultare controproducente, causando perdite sotto il profilo economico e reputazionale. Bisogna affidarsi a chi ha le capacità di fare content marketing, adottando un piano d’azione per la produzione e distribuzione di contenuti testuali, audio-video, foto e grafiche su siti web, blog, ecommerce e social che sia coerente con il brand aziendale. 

Dare al cliente, non solo vendere

Per vendere, però, non bisogna caricare l’utente di contenuti esclusivamente promozionali, che addirittura potrebbero avere l’effetto opposto e penalizzare la piattaforma. “È fondamentale – rivela l’indagine – alternare contenuti diversi e arricchirli con informazioni utili e di intrattenimento per le persone, in una proporzione del ’70/30′: 70% di contenuti reputazionali, ispirazionali, informativi e che coinvolgano sempre di più l’audience e 30% di contenuti destinati alla vendita pura”.

Covid: come cambiano, e cosa rivelano, le recensioni online dei clienti ai ristoranti

L’emergenza Covid-19 ha cambiato le regole e dettato nuovi equilibri per il settore dell’ospitalità. Mentre i ristoratori stanno combattendo una battaglia durissima i clienti hanno voglia di normalità, tornare a uscire per mangiare una pizza o un buon piatto al ristorante. Normalità, però, significa non essere assillati dai timori, ed è compito del ristorante, del bar o della pasticceria comunicare alla propria clientela sicurezza, dimostrando accortezza e attenzione a tutte le norme in vigore. Normalità per gli ospiti significa però anche lasciare recensioni. E RepUP, startup rivolta a gestori e titolari di ristoranti, bar, pizzerie, gelaterie e pasticcerie per la gestione dei commenti sulle piattaforme di recensioni online, ha condotto un’analisi prendendo in considerazione i dati degli mesi post lockdown.

Meno ospiti nei locali, più recensioni sulle piattaforme

“Quello che balza agli occhi dai nostri dati, ricavati dalla fusione di informazioni derivanti dalle principali piattaforme di recensioni, è che a fronte di un flusso inferiore di ospiti all’interno dei locali si osserva una tendenza inversa per quanto riguarda il numero di recensioni – spiega Salvatore Viola, Ceo di RepUP -. In pratica, le persone vanno meno nei ristoranti, ma scrivono di più su TripAdvisor e su Google”.

Questo, in realtà, può essere anche spiegato dal fatto che un’uscita sporadica diventa un “evento”, e proprio per questo si ha voglia di condividerla molto più di prima.

“Un locale su quattro non è riuscito ad affrontare la stagione estiva”

“Siamo partiti dal numero di locali attivi nell’ultimo anno sulle piattaforme di recensioni, circa 198mila, e abbiamo controllato quanti di essi hanno ripreso effettivamente l’attività negli ultimi mesi – racconta Andrea Orchesi, presidente RepUP -. Questi dati ci dicono che in Italia la percentuale dei locali che ha riaperto a pieno regime dopo il periodo di chiusura forzata varia di regione in regione”.

La forbice delle riaperture va infatti dal 65,95% rilevato in Calabria al 76,47% del Friuli Venezia Giulia, regione al primo posto come percentuale di riaperture, seguita da Liguria (76,36%) e Umbria (76,26%).

“Insomma – continua Orchesi – questi numeri dicono inesorabilmente che nel migliore dei casi un locale su quattro non è riuscito ad affrontare la stagione estiva”.

Ora più che mai bisogna curare la reputazione online del locale

I commenti dei clienti sulle piattaforme sono un potente strumento di marketing. TripAdvisor lo sa, e ha invitato i locali presenti sulla piattaforma a compilare una scheda per raccontare le misure prese contro la diffusione del Covid-19, riferisce Adnkronos. Nelle recensioni si parla sempre di qualità del cibo, prezzi e professionalità del personale, ma negli ultimi mesi si leggono riferimenti ai comportamenti dei camerieri, si spia nelle cucine per vedere se il personale indossa le mascherine, o si parla di quanto l’esperienza nel locale sia risultata rassicurante. In questo momento quindi la reputazione online di un locale è più importante che mai. Ci sono meno clienti e bisogna fare il possibile per non perdere anche un solo coperto.

GDPR e gestione dati sensibili

Le recenti novità che il nuovo Regolamento Comunitario ha introdotto, hanno “costretto” aziende ed imprese a rivedere la propria gestione dei dati sensibili relativi non solo ai clienti, ma anche ai dipendenti e fornitori. Sono davvero poche le aziende che possono dirsi esenti da tale obbligo, considerando che già il trattare il semplice codice fiscale di un dipendente significa gestire un dato personale importante e dunque il doversi adeguare in quanto questo dato consente già di individuare ed identificare una specifica persona. Gestire in maniera efficace i dati significa raccoglierli, memorizzarli e conservarli così come previsto dal nuovo regolamento. Questo è il motivo per il quale colui il quale è chiamato a gestire tali dati sensibili all’interno dell’azienda (ma potrebbe tranquillamente essere un incaricato esterno) deve indicare quale sia la persona con il compito di individuare lo scopo e la modalità di trattamento dei dati.

Sia i dipendenti che i fornitori e clienti dovranno necessariamente essere avvisati di come i loro dati personali saranno trattati, ovvero in maniera trasparente e nel rispetto della normativa. In alcuni casi, ovvero quando si tratta di aziende che hanno più di 250 dipendenti, diventa necessario istituire un apposito registro. Per questo motivo può non sembrare semplice riuscire a gestire correttamente tutti gli aspetti di questa materia così delicata, soprattutto per quel che riguarda grandi aziende le quali hanno certamente una mole maggiore di dati da trattare e che riguardano non solo dipendenti ma anche tanti fornitori e clienti. Per tutte queste realtà imprenditoriali è preferibile usufruire degli appositi corsi privacy di Area 81 srl, grazie ai quali è possibile comprendere in maniera approfondita come muoversi  e riuscire a mettersi perfettamente in regola con quanto previsto dal nuovo regolamento comunitario, evitando le pesanti sanzioni previste per quanti non si adeguano.

YouTube Music, l’app che sfida Spotify

Google lancia la sua sfida musicale a Spotify, ma non solo, anche ad Apple Music e Amazon Music, e decide di espandere il suo servizio in streaming YouTube Music.

Lanciato lo scorso 22 maggio in Corea del Sud, Stati Uniti, Messico, Australia e Nuova Zelanda, YouTube Music ora arriva in altri 12 Paesi, compresa l’Italia. Il nuovo servizio è una sorta di mix tra Spotify, a cui somiglia anche graficamente, e i contenuti tradizionali di YouTube. Si tratta di un’unica app, o nel caso del desktop, raggrupperà in una sola sezione videoclip e performance dal vivo, album ufficiali, singoli, remix e cover.

Rintracciare brani e album anche tramite pezzi di testo o indicazioni ancora più generiche

Come in Spotify, YouTube Music darà anche la possibilità di creare playlist, o ascoltarne alcune predefinite, in base all’umore o all’attività che si sta svolgendo in quel momento. Ma Google, che ha costruito la propria fortuna su un motore di ricerca, non dimentica le origini, e introduce un sistema efficace in cui brani e album possono essere rintracciati sia tramite nome dell’autore o titolo, ma anche tramite pezzi di testo o indicazioni ancora più generiche, come, ad esempio “canzone con il fischio”, riporta Agi.

Il punto forte sono i video

Nella homepage dell’app sono presenti sottosezioni come tendenze, nuovi successi e nuove uscite. Una volta scelto un album o un cantante si apre una lista di brani, album, playlist che contengono le sue opere e un elenco di artisti correlati. Le canzoni e i dischi verranno riprodotti e, quando disponibili, accompagnati dai videoclip corrispondenti. La maggiore differenza rispetto a Spotify sta proprio nella sezione Video, popolata di filmati, clip ed esibizioni live.

Gratis o con l’abbonamento Music Premium

YouTube Music è gratuito, ma se si vuole risparmiare si dovranno accettare (come su YouTube) le pubblicità che precedono i brani. Il modello, quindi, è lo stesso di Spotify: il servizio non costa nulla con gli annunci, in alternativa si può scegliere l’abbonamento, Music Premium: niente pubblicità e la possibilità di scaricare e riascoltare i brani anche in assenza di connessione Internet. Dopo un periodo promozionale di tre mesi gratuiti, il servizio costa 9,99 euro al mese e 14,99 euro per il Piano Famiglia.

Ed è subito concorrenza: in contemporanea arriva infatti anche YouTube Premium che include, oltre a tutte le opportunità di YouTube Music, anche le serie tv e i film di YouTube Originals

L’agenzia SEO ideale: quale?

Inauguriamo il nostro nuovo blog parlando di SEO (search engine optimization), una tematica molto delicata e discussa nel mondo web: ci sono i detrattori, che la considerano ormai un’attività sovradimensionata per i risultati che è in grado di dare… e ci sono i sostenitori incalliti, che piuttosto che pagare un click a Google con gli annunci sponsorizzati spenderebbero capitali in ottimizzazioni e link building.

La realtà, come spesso accade, sta nel mezzo: la SEO, se combinata opportunamente e con la giusta strategia alle campagne PPC, è in grado di dare un ottimo supporto di traffico e consentire il raggiungimento degli obiettivi di conversione pianificati. Ma veniamo al dunque: in questi anni, abbiamo raccolto molti commenti ed opinioni durante i principali eventi in Italia dedicati al web, da professionisti del settore, imprenditori o semplici amanti dell’argomento, ed ecco la classifica delle 5 qualità più apprezzati dalle aziende e che qualsiasi agenzia SEO dovrebbe avere!

  1. Sapere ascoltare – che si tratti di esperienze precedenti, errori del passato, storia dell’azienda, sensazioni, obiettivi… una buona agenzia SEO deve sapere prima ascoltare attentamente, per poi proporre le giuste soluzioni
  2. Rendere partecipi – all’unanimità: basta con report freddi e tecnici, basta con ranking che, se non supportati da informazioni più “pratiche”, non significano nulla… Il cliente vuole essere partecipe di ciò che sta accadendo a capire come ci si sta muovendo
  3. Ammettere gli errori – nessuno è infallibile, e le agenzie web e SEO in particolare spesso e volentieri fanno delle castronerie: da quella keyword interpretata male, a quel link che ha fatto penalizzare il sito… l’importante è sbagliare il meno possibile, ovvio, ma sopratutto ammettere di aver sbagliato
  4. Proporzionare l’investimento ai risultati – sia chiaro, nessuno chiede di pagare ad obiettivi, non è assolutamente questo il punto…. ma l’opinione diffusa è che prima di fare lo step successivo, l’agenzia dimostri di aver centrato l’obiettivo precedente, per una crescita sostenibile e appurata in modo tangibile dal cliente
  5. Parlare in modo semplice – plebiscito: basta tecnicismi, acronimi strampalati o frasi estrapolate direttamente da un libro sul web marketing… Il cliente vuole capire (vedi punto 2), e per farlo è necessario che l’agenzia si metta sul suo stesso piano verbale

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