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Gli italiani in quarantena migliorano il proprio inglese

Gli italiani in quarantena sono super connessi, i canali e le risorse digitali continuano a posizionarsi come un’alternativa chiave. Anche quando si tratta di migliorare il proprio livello di inglese. Da diverse settimane siamo confinati nelle nostre case per superare la crisi sanitaria, e durante tutto questo tempo c’è chi ha approfittato per imparare o migliorare la conoscenza della lingua inglese.

Ma come si è evoluto lo studio dell’inglese da casa in queste settimane? E c’è davvero voglia di imparare? Per rispondere a queste domande ABA English, l’accademia di inglese digitale con più di 30 milioni di studenti nel mondo, ha condotto uno studio dal titolo L’inglese si impara anche a casa. Il sondaggio ha preso in considerazione l’opinione di oltre 1.400 italiani e spagnoli sui loro progressi con l’inglese, e sulle abitudini di studio durante le settimane di quarantena.

Studiare da più di 3 ore a 5 ore a settimana

Una delle principali evidenze del sondaggio di ABA English è che il 77% degli italiani intervistati dichiara di aver migliorato il proprio livello di inglese nelle ultime settimane. Il 39% degli intervistati dedica più di 3 ore a settimana allo studio dell’l’inglese, la metà di loro per più di 5 ore. Nello specifico, il 40% degli intervistati sostiene di aver migliorato il suo inglese da beginner (A1) a lower intermediate (A2), mentre il 43% afferma di aver migliorato il suo inglese nei livelli intermedi, fra lower intermediate (A2) e upper intermediate (B2).

Comprensione orale, grammatica e speaking gli aspetti più studiati

Quali sono gli aspetti dello studio dell’inglese a cui gli italiani stanno dedicando maggiore interesse? Al primo posto la comprensione orale, un aspetto fondamentale per il 68% degli intervistati, seguita dall’approfondimento della grammatica (41%), e lo speaking (41%), ovvero la lingua “parlata”. Ma oltre all’utilizzo dell’applicazione mobile e al campus virtuale di ABA English, gli “allievi” di dichiarano di completare il loro studio con video lezioni (44%), serie tv in lingua originale (34%), e notizie rigorosamente in lingua inglese (23%).

Inglese più necessario per trovare lavoro dopo l’emergenza COVID-19

Una delle principali motivazioni dell’interesse degli italiani per lo studio dell’inglese si ricollega al mondo del lavoro. Il 59% ritiene che la padronanza dell’inglese sarà ancora più necessaria per trovare lavoro dopo l’attuale crisi sanitaria. Quasi due terzi degli intervistati afferma inoltre di utilizzare l’inglese nel suo lavoro. E 9 intervistati su 10 sostengono che raccomanderebbero ad amici e familiari di approfittare di questi giorni per migliorare il loro inglese da casa, per essere più preparati possibile nel futuro.

Meno morti per incidenti stradali grazie all’intelligenza artificiale

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2018 sono 1,5 milioni le persone decedute a causa di incidenti stradali in tutto il mondo, di cui più della metà pedoni e ciclisti. La buona notizia è che, almeno in Italia, dall’inizio del nuovo millennio il numero dei decessi dovuti a incidenti stradali è diminuito notevolmente. Da quanto emerge da un’elaborazione a cura del Centro Studi Auto Aziendali su dati Istat le vittime sono passate dalle 7.096 nel 2001 alle 3.378 nel 2017, con un calo, quindi, del 52,4%. Il risultato raggiunto dipende dall’effetto congiunto di diversi fattori di miglioramento, da quelli introdotti nella normativa stradale al maggior numero di controlli, dal miglioramento delle infrastrutture a quello avvenuto nella qualità delle auto. Ma anche dalla sempre maggiore disponibilità dei dati rilevati dai sensori installati a bordo dei veicoli, e soprattutto dall’AI, che consente un’interpretazione dei dati sempre più sofisticata.

Telecamere di bordo, sistemi di geolocalizzazione e app

Telecamere di bordo, sensori, scatole nere e sistemi di geolocalizzazione: oggi sulle automobili esiste già una grande quantità di soluzioni tecnologiche che permettono di raccogliere dati al fine di aumentare la sicurezza sulle strade. Si tratta di informazioni sulla localizzazione del veicolo, su stili di guida o consumi, nonché sulla possibilità di monitorare lo stato d’uso del veicolo e dei parametri esterni, come condizioni stradali e atmosferiche, traffico, o situazioni di rischio. Ci sono però anche altre soluzioni, come l’app VizibleZone, sviluppata da una startup israeliana per arginare il problema degli incidenti stradali dovuti ai cosiddetti pedoni invisibili, quelli che spuntano all’ultimo momento davanti a un’auto, che spesso non riesce a fermarsi in tempo. Grazie all’AI l’app crea modelli stradali basati sui dati GPS anonimizzati, raccolti dagli smartphone di pedoni e automobilisti, e segnala sui device eventuali pericoli, riporta IlFattoQuotidiano.

Software in grado di fare analisi molto complesse

“Per incrementare la sicurezza dei veicoli in circolazione – afferma Luciano Bononi, professore all’Università di Bologna – l’enorme mole di dati oggi disponibile può essere elaborata da software in grado di fare tre tipi di analisi molto complesse, e cioè analisi predittive, prescrittive e cognitive”.

Se l’analisi predittiva consente di ricavare dai dati una previsione sugli eventi che si verificheranno in futuro, riferisce Ansa, l’analisi prescrittiva fornisce indicazioni su cosa sia opportuno fare per reagire nel modo migliore al verificarsi di determinati eventi.

Obiettivo, zero morti sulle strade

L’analisi cognitiva, invece, grazie alla messa a punto di algoritmi di AI sempre più avanzati, è in grado di trasformare i dati grezzi in conoscenza, e trasmettere queste informazioni all’uomo in linguaggio naturale, al fine di supportarlo nel prendere decisioni sempre più accurate, tempestive e corrette. La prospettiva, pertanto, “è che in futuro con questi sistemi di Intelligenza Artificiale si renderà sempre più sicura la guida dei veicoli – aggiunge Luciano Bononi – rendendo non più utopistico l’obiettivo zero morti sulle strade”.

Intelligenza artificiale, in Italia vale 200 milioni di euro

Anche in Italia l’Intelligenza artificiale avanza, e il suo mercato, tra software, hardware e servizi, nel 2019 ha raggiunto un valore 200 milioni di euro, di cui il 78% commissionato da imprese italiane e il 22% come export. Tra i settori industriali in cui l’AI è più diffusa, al primo posto banche e nel settore finanza, seguiti da manifattura, utility e assicurazioni. Sebbene la crescita del mercato e le percentuali di diffusione l’implementazione dell’Intelligenza artificiale in Italia da parte delle imprese non ha ancora favorito la sostituzione del lavoro umano. Lo ha rilevato la ricerca dell’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano.

Banche e finanza rappresentano il 25% del mercato

Tra i diversi settori industriali italiani l’AI è diffusa in particolare nelle banche e nel settore finanza, che rappresentano il 25% del mercato, nella manifattura (13%), nelle utility (13%) e nelle assicurazioni (12%). La quota principale della spesa (33%) è dedicata a progetti di Intelligent Data Processing, algoritmi per analizzare ed estrarre informazioni dai dati, seguiti da quelli di Natural Language Processing e di Chatbot/Virtual Assistant (28%), in grado di comprendere il linguaggio naturale ed eventualmente fornire risposte a un interlocutore.

Il 96% delle imprese non rileva effetti di sostituzione del lavoro umano

Secondo l’indagine del Politecnico di Milano, il 96% delle imprese che hanno già implementato soluzioni di Intelligenza artificiale non rileva effetti di sostituzione del lavoro umano da parte delle macchine. Solo l’1% nota come la sua implementazione abbia eliminato alcuni posti di lavoro, mentre il 3% sostiene di avere mitigato gli effetti sui lavoratori coinvolti grazie a strumenti di protezione sociale.

In generale, più che sostituire le capacità degli esseri umani, secondo la ricerca, l’Intelligenza artificiale le sta aumentando. Tanto che il 48% delle imprese evidenzia che le soluzioni di Intelligenza artificiale adottate non hanno direttamente coinvolto attività svolte dalle persone,  e il 28% pensa che le attività sostituite abbiano permesso ai lavoratori di dedicarsi con maggiore dedizione a quelle rimanenti. Il 24%, però, afferma che sono stati necessari ricollocamenti, anche parziali, dei lavoratori coinvolti.

Nei prodotti e servizi per i consumatori finali una diffusione ancora limitata

Nei prodotti e servizi acquistabili dai consumatori finali, però, la diffusione dell’Intelligenza artificiale è ancora limitata. Secondo la ricerca, solo il 5% di 407 categorie di prodotti o servizi sul mercato prevede questa funzionalità, percentuale che sale al 31% tra quelli nativamente elettronici, come smartphone e automobili, ma anche televisori, sistemi audio, fotocamere, e piccoli elettrodomestici, riporta Ansa.A oggi il 19% della spesa totale delle famiglie italiane è indirizzato a categorie merceologiche con almeno un prodotto o servizio che contiene AI.

Nel breve periodo, però, si prevede ampio spazio per nuove soluzioni.

Information security, le aziende italiane aumentano il budget per la sicurezza

In Italia il mercato dell’information security continua la sua scalata, e da parte delle aziende italiane per il terzo anno consecutivo prosegue la crescita degli investimenti in soluzioni e tecnologie per la sicurezza informatica. Tanto che nel 2019 questo mercato raggiunge un valore di 1,317 miliardi di euro, in aumento di poco meno dell’11% rispetto al 2018. La spesa in sicurezza delle imprese si concentra soprattutto in soluzioni di security tradizionali, che raccolgono il 52% degli investimenti, a fronte del 48% di investimenti nei servizi, che però risultano crescere maggiormente per il 45% delle aziende.

L’Intelligenza artificiale al centro dell’attenzione per le grandi imprese

I dati emergono da una ricerca dell’Osservatorio Information Security and Privacy della School of Management del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno Security-enabled transformation: la resa dei conti nel capoluogo lombardo. Da quanto risulta dallo studio, la tecnologia al centro dell’attenzione è l’Intelligenza artificiale, già impiegata per la gestione della sicurezza dal 45% delle grandi imprese.

Il 55% delle organizzazioni ha completato l’adeguamento al GDPR

Sempre secondo l’indagine a fine 2019 il 55% delle imprese ha inoltre completato l’adeguamento al GDPR. Una percentuale più che raddoppiata rispetto all’anno precedente, quando erano il 24%. Il 45% delle stesse ha poi aumentato gli investimenti proprio a questo scopo. Il 61% delle imprese, invece, oggi ha in forza all’interno della propria organizzazione un Data Protection Officer. Ma ora si guarda agli effetti del Cybersecurity Act, che ha definito un sistema di certificazione per la sicurezza informatica a livello europeo, e che secondo il 76% degli executive porterà più garanzie di sicurezza, uniformità normativa, vantaggi competitivi e calo dei costi.

Aumenta la domanda di competenze, ma manca la maturità organizzativa

La spinta normativa e la crescita degli investimenti trainano la domanda anche di competenze nell’information security. Il 71% delle grandi imprese italiane afferma che il team interno ha già le competenze necessarie, mentre il 40% afferma di essere alla ricerca di nuovi profili. In particolare, il 51% è alla ricerca di Security Analyst, il 45% di Security Architect, e il 31% Security Engineer. Figure, queste, in cima alle richieste dei recruiter. Secondo la ricerca, allo stesso tempo appare però ancora scarsa la maturità organizzativa delle imprese. Nel 40% delle organizzazioni non esiste infatti una specifica funzione Information Security, che rimane all’interno del comparto It, e il responsabile della sicurezza è lo stesso Chief information officer (Cio).

Facebook, guerra ai deepfake in vista del voto Usa

Prosegue la guerra ai deepfake dichiarata da Facebook. Se a settembre il social network, insieme a colossi come Microsoft e Amazon, aveva lanciato l’iniziativa Deepfake Detection Challenge a dicembre si è alleato con Reuters per la creazione di un corso online per imparare i riconoscerli, e ora li mette al bando.

La compagnia di Mark Zuckerberg ha infatti annunciato che eliminerà dalla propria piattaforma i contenuti “manipolati allo scopo di ingannare”, considerati la nuova frontiera della disinformazione, preservando tuttavia le parodie e la satira. L’annuncio arriva in un momento in cui i social network sono chiamati a ripulire le proprie piattaforme da fake news e contenuti ingannevoli in vista delle elezioni presidenziali americane, che si terranno a fine 2020.

Video creati per creare uno scambio di identità

In un post firmato dalla vicepresidente del Global Policy Management, Monika Bickert, Facebook fa sapere che rimuoverà i contenuti modificati “in modo che non risultano evidenti a una persona comune, e che probabilmente indurrebbero a pensare che un soggetto del video abbia detto parole che in realtà non ha pronunciato”. I deepfake sono infatti video creati con una tecnica che sfrutta l’intelligenza artificiale per sovrapporre due volti in un video, creando uno scambio di identità e consentendo, appunto, di far dire a un politico frasi che non ha mai pronunciato. “Sebbene siano ancora rari su internet – prosegue Bickert – rappresentano una sfida significativa per la nostra industria e per la società”.

Un corso online per imparare a individuare foto, video e audio falsi

Per capire se un video è stato manipolato, la compagnia si avvarrà perciò dei suoi 50 partner mondiali per il fact checking in 40 lingue. Già a settembre, il social network di Mark Zuckerberg era entrato in una coalizione composta da diverse aziende e università, la Deepfake Detection Challenge, impegnandosi a investire 10 milioni di dollari per creare video con ricercatori che spiegano come individuare i video contraffatti, riporta Ansa. L’alleanza con l’agenzia di stampa Reuters, invece, è stata stipulata allo scopo di creare un corso online che individui i video manipolati. Il corso dura 45 minuti ed è concepito per dare ai giornalisti gli strumenti per individuare ed evitare foto, video e audio falsi.

Fermare il fenomeno delle disinformazione online

L’iniziativa fa parte del Facebook Journalism Project, e nel corso del 2020 il social e l’agenzia di stampa terranno eventi pubblici congiunti sul tema.

“La collaborazione con Reuters è importante sia per i giornalisti sia per noi per fermare il fenomeno delle disinformazione online”, commenta la portavoce di Facebook Julia Bain. “Il 90% delle notizie manipolate che vediamo online – aggiunge Hazel Baker di Reuters – sono video contraffatti, penso sia un punto di partenza importante”. Per ora il materiale è disponibile in inglese, spagnolo, arabo e francese, e si pensa a una traduzione in altre 12 lingue

I differenziali retributivi in Italia, il gap non è solo tra uomini e donne

Nonostante presenti un calo, il gap retributivo uomo-donna in Italia resta ampio. Ma non è l’unico nel mondo italiano del lavoro. Se nel 2014 la differenza tra gli stipendi fra uomini e donne si attestava al +8,8% nel 2017 è pari al +7,4%. Questo, per effetto di una maggiore crescita della retribuzione oraria mediana delle donne (+2,4%) rispetto a quella degli uomini (+1%). Ma è “notevole” anche il differenziale retributivo tra i lavoratori nati in Italia e quelli nati all’estero, che secondo il rapporto Istat sui differenziali retributivi in Italia, è pari al 13,8%. Così come la retribuzione oraria mediana dei lavoratori con contratto full-time, che risulta del 19% superiore a quella dei part-time.

Il gap tra chi è nato in Italia e chi all’estero

Ordinando le posizioni lavorative secondo il valore crescente della retribuzione oraria, la mediana è il valore della retribuzione della posizione lavorativa centrale. Tale retribuzione oraria mediana fa registrare nel 2017 un aumento dell’1,7% rispetto al 2014, dello 0,4% rispetto al 2015 e dello 0,3% rispetto al 2016. Ma nel 2017 la metà delle posizioni lavorative percepiva una retribuzione oraria pari o inferiore a 11,25 euro (valore mediano). La fotografia scattata dal rapporto Istat sui differenziali retributivi in Italia, mostra inoltre che la retribuzione oraria mediana dei rapporti di lavoro di dipendenti nati in Italia (che sono l’83,3% del totale) è pari a 11,53 euro, ed è superiore di 1,40 euro rispetto a quella dei lavoratori nati all’estero.

Contratti a tempo indeterminato e a tempo pieno hanno una retribuzione oraria più alta

Le tipologie di lavoro più diffuse, ovvero i contratti a tempo indeterminato (pari al 65,5% dei rapporti totali) e i contratti a tempo pieno (pari al 68,3% dei rapporti totali) presentano una retribuzione oraria più alta rispetto alle altre tipologie. In particolare, la retribuzione oraria mediana dei lavoratori con contratto full-time (11,98 euro) è del 19% superiore a quella dei part-time, mentre per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato il differenziale retributivo è più alto del 17,4% rispetto a quelli a tempo determinato.

Qualifiche ad alto input e a basso input di lavoro

A livello di qualifica contrattuale, riporta Adnkronos, nel 2017 gli impiegati e i dirigenti percepiscono una retribuzione oraria mediana pari a 14,04 euro, ovvero il 65,4% in più rispetto agli apprendisti. Per gli operai, che rappresentano il 62% circa delle posizioni lavorative totali, lo stesso differenziale è pari al 23,7%.

Le posizioni lavorative con almeno 90 giornate retribuite nell’anno, definite ad alto input di lavoro, rappresentano invece il 75% circa del totale, e registrano una retribuzione oraria mediana di 11,65 euro, con un differenziale retributivo del +13,5% rispetto a quelle a basso input.

Italiani impreparati, e le imprese non trovano i profili adatti

La formazione insufficiente dei candidati italiani è la prima barriera che impedisce alle imprese di trovare i profili di cui hanno bisogno. Comune a tutte le categorie di lavoratori, colpisce dai manager agli impiegati, dai professionisti dei servizi agli operai non qualificati, anche se soprattutto i tecnici e gli operai specializzati. Anche l’invecchiamento della popolazione influisce in maniera negativa per tutte le qualifiche, dall’alta specializzazione in giù. Sono alcuni dei risultati dell’indagine Impreparati? Sì, e non solo. I perché della difficoltà di reperimento di alcune figure professionali chiave, condotta su 1.160 dipendenti di Randstad, l’operatore mondiale nei servizi per le risorse umane, specializzati nella selezione del personale.

La carenza maggiore è nella preparazione scolastico-universitaria

Secondo il 66,7% dei professionisti Hr italiani di Randstad la carenza maggiore è riscontrabile nella preparazione scolastico-universitaria (63,9%) e nell’invecchiamento della popolazione (62%). Un altro fattore che ostacola la selezione di profili idonei è l’apertura alle problematiche ambientali (55,3%), nell’automazione (54,8%), nella digitalizzazione (53,1%), nella diversificazione dei rapporti di lavoro (46,9%), e nell’internazionalizzazione delle imprese (45,8%). Più marginale il ruolo dei fenomeni migratori (31,4%) e della globalizzazione dei mercati (34,5%).

Globalizzazione e apertura alle problematiche ambientali

La globalizzazione dei mercati e l’internazionalizzazione delle imprese trovano impreparate le figure di più alto livello come i manager, mentre la mancanza di esperienza di diversificazione nei rapporti di lavoro crea rigidità soprattutto per gli impiegati, le professioni dei servizi e gli operai. L’apertura alle problematiche ambientali (55,3%) raggiunge invece i livelli più elevati nelle professioni dei servizi, quelle più vicine ai consumatori, A riprova che sono questi ultimi a trainare la domanda di qualità dell’ambiente stesso, riporta Adnkronos.

Gli ostacoli al cambiamento nelle diverse categorie professionali

La ricerca ha anche indagato gli ostacoli al cambiamento presenti nei profili dei candidati appartenenti alle diverse categorie professionali. Fra i manager le lacune più evidenti riguardano la propensione all’innovazione e la scarsa sensibilità per l’organizzazione (24%), seguita da stili aziendali inadeguati (22%). Per i profili altamente specializzati le principali barriere sono rappresentate dagli stili aziendali inadeguati (23%), la scarsa conoscenza-formazione (22%) e i problemi di natura organizzativa (18%). Per i tecnici il primo ostacolo invece è la scarsa conoscenza-formazione (26%), seguita dagli stili aziendali inadeguati (22%). La scarsa conoscenza è la barriera più evidente anche fra gli impiegati (29%), che mostrano anche evidenti lacune organizzative (22%). Il problema principale dei professionisti dei servizi è la scarsa sensibilità per l’organizzazione (27%), seguito da problematiche di carattere sociale (20%).

A Roma l’Osservatorio interdisciplinare su social, media e comportamento

Le neuroscienze, la psicologia sociale, la scienza e l’informatica aiutano a comprendere le conseguenze dell’immersione costante nei social media fissando uno schermo. Atteggiamenti che incidono sul nostro comportamento, ma possono cambiare anche il nostro cervello? Sia gli esperti di Intelligenza Artificiale sia gli studiosi di scienze comportamentali possono fornire le risposte, e aiutarci a comprendere il ruolo degli algoritmi nel filtrare le informazioni online a cui abbiamo accesso. E l’Osservatorio TuttiMedia ha riunito a Roma circa 30 esperti provenienti da diverse discipline scientifiche e umanistiche, con l’obiettivo di rivolgersi soprattutto a chi ha il compito di effettuare scelte politiche, e stabilire normative sui temi dell’informazione digitale.

Un documento interdisciplinare per una nuova linea di ricerca

L’Osservatorio TuttiMedia e l’Unione Europea hanno quindi avviato un lavoro congiunto per stabilire le regole di una corretta informazione su questi temi e comprendere in che misura l’uso dei social media, l’immersione su uno schermo o nella VR modifichino il comportamento dell’individuo. A questo scopo è stato definito un documento interdisciplinare con i punti di vista di esperti in diverse discipline (teologia, data analyst, media theorist, economia, neuroscienza…) provenienti da diversi Paesi.

“Le linee guida della scienza dei nuovi media saranno presto un manifesto perché in questi due giorni abbiamo posto le basi per una nuova linea di ricerca”, aggiunge Derrick de Kerckhove, direttore scientifico dell’Osservatorio TuttiMedia.

Verificare l’influenza sui processi cognitivi e affettivi a livello individuale e collettivo

Gli psicologi già lanciano l’allarme sulla ridotta capacità di attenzione nei giovani adulti a causa della costante esposizione ai flussi di informazioni online, riporta Askanews.

“L’influenza sui processi cognitivi e affettivi sia a livello individuale sia collettivo ha bisogno di essere verificata empiricamente da una prospettiva strettamente scientifica e multidisciplinare”, spiega Roberto Viola, direttore del dipartimento della Commissione Europea responsabile dello sviluppo di un mercato unico digitale.

“Una visione capace di suggerimenti per i futuri programmi di ricerca europea”

Per generare nei Paesi dell’Unione europea una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva è necessario comprendere se e come i social media possano essere capaci di “innescare azioni collettive anche nella crescente diffusione dell’odio”, aggiunge Maria Pia Rossignaud, vice presidente Osservatorio TuttiMedia.

Secondo Maria Pia Rossignaud è fondamentale partire da basi scientifiche, e “il simposio romano è la prima esplorazione di un percorso che conduce verso una visione interdisciplinare sui social media. Una visione capace di suggerimenti per i futuri programmi di ricerca europea, le future tecnologie digitali e le future politiche e misure normative”.

Entro il 2025 il 68% dei passeggeri gestirà i voli da smartphone

Dalle notifiche sulla posizione del bagaglio alle informazioni sull’imbarco fino ai pagamenti, entro il 2025 quasi sette passeggeri su dieci gestiranno tutte le fasi del viaggio in aereo da dispositivi mobili. Se oggi le persone gestiscono ogni aspetto della vita quotidiana da smartphone e tablet si aspettano di poter fare lo stesso anche per il viaggio aereo

“Abbiamo a che fare con un vero e proprio ‘cambiamento demografico’- spiega Barbara Dalibard, Ceo di SITA -. Per l’83% dei responsabili IT di compagnie aeree e aeroporti questo mutamento di abitudini sarà l’elemento più influente sulla definizione della strategia per le soluzioni per i passeggeri nei prossimi sei anni”.

È quanto emerge dal report 2025: Air Travel for a Digital Age di SITA, il fornitore globale di tecnologia per il trasporto aereo.

Un viaggio sempre più self-service

Secondo il SITA i viaggiatori chiedono servizi più automatizzati, e il pieno controllo su ogni fase del viaggio. Un viaggio, insomma, sempre più self-service.

“Aerolinee, scali e altri stakeholder devono mettere in atto una sempre maggiore collaborazione per operazioni sempre più efficienti, e per consentire ai passeggeri di vivere l’esperienza di viaggio positiva e senza intoppi”, aggiunge Dalibard.

Le irregolarità nella gestione dei bagagli, ad esempio, causano fastidio ai passeggeri e costi per gli operatori. Se il numero di bagagli disguidati nell’ultimo decennio è passato da 14,7 ogni mille passeggeri nel 2008 a 5,69 nel 2018, nello stesso anno l’industria del trasporto aereo ha speso 2,4 miliardi per problemi con borse e valigie, riporta Askanews. Se i dati non sono condivisi correttamente fra gli operatori è difficile tenere traccia del bagaglio, o fornire informazioni al passeggero.

La biometria definisce la passenger experience del futuro

La biometria è un’alleata chiave per una più completa automatizzazione delle operazioni, e un passaggio più fluido tra le diverse fasi del viaggio. Entro il 2021 il 63% delle aerolinee implementerà gate self-service che utilizzano tecnologia biometrica e il riconoscimento delle identità. Il 48% implementerà gate che sfruttano la sola biometria e il 58% degli aeroporti installerà gate biometrici. Tale tecnologia è destinata a espandere le proprie funzionalità, e il 54% dei responsabili IT di compagnie aeree e aeroporti ritiene che token di viaggio biometrici duraturi, ovvero validi non per un solo viaggio o aeroporto, ma per più spostamenti, siano un elemento chiave per definire la passenger experience del futuro.

I passaporti non serviranno più

“Per trarre vantaggi concreti dalla tecnologia biometrica – aggiunge Dalibard – noi come industria dobbiamo lavorare insieme per sviluppare, in pieno accordo, un’identità digitale che non solo fornisca ai passeggeri controllo sulla propria identità, ma sia anche accettata in ogni aeroporto e attraverso le frontiere, come lo sono oggi i passaporti”.

A tal fine SITA sta già lavorando con organizzazioni del settore come IATA, ICAO e ACI, ed è inoltre founding steward della Sovrin Foundation, l’organizzazione privata non-profit la cui missione è abilitare le identità digitali distribuite e decentralizzate.

Il fashion renting esplode anche in Italia

Si chiama fashion renting e arriva dall’America, ma sta esplodendo anche in Italia. Il noleggio di abiti griffati è un trend che non solo realizza il sogno di ogni donna di avere a propria disposizione un armadio pressoché infinito, ma rappresenta un antidoto al fast fashion, e quindi alla produzione eccessiva e indiscriminata di indumenti low cost “usa e getta”. A guidare la crescita del settore è soprattutto il noleggio online, che secondo Allied Market Research nel 2023 varrà la cifra record di 1,9 miliardi di dollari. È quanto emerge da uno studio condotto da Espresso Communication per DressYouCan, startup milanese di fashion renting, per indagare sulle nuove abitudini fashion degli italiani.

Un nuovo modo di consumare soprattutto per Generazione Z e Millennial

“Il fashion renting – sottolinea Giovanni Maria Conti, docente di Storia e Scenari della Moda presso il Politecnico di Milano – rappresenta un nuovo modo di consumare soprattutto per Generazione Z e Millennial, i target più attenti alla sostenibilità”.

Ma noleggiare gli abiti permette anche di essere più felici, riporta Adnkronos. Se per anni lo shopping è stato considerato quasi una sorta di strumento terapeutico attualmente i consumatori sembrano preferire le esperienze agli acquisti. E a differenza dell’acquisto di numerosi abiti il noleggio è una vera e propria esperienza.

Un trend amato anche dalle influencer

Questo nuovo trend è amato anche dalle influencer. “Ricevere direttamente a casa o nella location dell’evento il proprio vestito rende tutto più facile, perché spesso si parla di abiti di un certo valore – spiega l’influencer Marie-Loù Pesce – e in questo modo non si rischia di sporcare, stropicciare o rovinare il capo”.

Concorda anche Pamela Soluri, secondo la quale “Grazie al fashion renting l’alta moda non è più un’utopia e noi fashion victim possiamo vivere in qualsiasi momento una magnifica Haute Couture Experience”. Ma non solo, è anche la nuova frontiera del risparmio e un’intelligente soluzione all’eterno problema femminile del dress code nelle occasioni speciali..

Ogni anno nella sola Ue generati 16 milioni di tonnellate di rifiuti tessili

L’ultimo aspetto da analizzare, ma non meno importante, è che il fashion renting permette di ridurre l’inquinamento. Acquistare meno capi d’abbigliamento è oggi fondamentale per salvaguardare il Pianeta. Come riporta El País negli ultimi 15 anni la durata dei capi di abbigliamento è diminuita del 36% e oggi i vestiti hanno una vita media inferiore ai 160 utilizzi, una situazione che genera ogni anno 16 milioni di tonnellate di rifiuti tessili nella sola Unione europea. Inoltre, avvisa il The Guardian, se nei prossimi anni non ci sarà un cambio di passo di qui al 2050 l’industria del tessile sarà responsabile di un quarto del consumo del carbon budget, causando un aumento della temperatura di ben 2°C.